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Questo articolo è stato pubblicato il 04 agosto 2013 alle ore 08:38.

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Ritengo che la filosofia americana nasca, in realtà, col e all'interno del Circolo di Vienna: non tanto e non solo perché, a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta, filosofi e scienziati dialogassero tra loro: oggi a troppi apparirebbe, disgraziatamente, chimerico), ma per quel mancato e fallimentare programma, il positivismo logico, che alcuni di loro, a causa del nazismo, rinfrescano negli Stati Uniti, dove emigrano per esercitare e rinnovare il proprio pensiero con la dovuta libertà e il dovuto sostengo (penso a Rudolf Carnap e a Kurt Gòdel, mentre Moritz Schlick, se non fosse stato purtroppo assassinato da uno studente fanatico, avrebbe potuto contribuire non poco).E ritengo pure che la filosofia americana nasca col e all'interno del Circolo di Berlino, che insisteva sull'empirismo logico (non sul positivismo). Tra coloro che emigrarono negli Stati Uniti (con una permanenza in Tuchia) vi è il grande Hans Reichenbach, sulla cui formulazione della distinzione tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione continuiamo a discutere. Circolo di Vienna e Circolo di Berlino che hanno portato la filosofia negli Stati Uniti, e che a essa hanno attivamente contribuito.
Così, trattando di una filosofia americana pragmatista, che con la suddetta poco condivide, almeno inizialmente, su diversi problemi tra cui quello della verità, ribadirei, ancor oggi, quanto scrivevo tempo fa in un volumetto (Teoria della conoscenza, edito da Laterza e ormai esaurito): «Per la teoria pragmatista, difesa da Peirce, James e Dewey, una proposizione è vera se è utile ai nostri fini, o se ha successo. L'utilità e il successo paiono, però, criteri davvero dubbi. Per esempio, adottato il criterio del successo, dovremmo dire – cosa che non intendiamo fare – che le proposizioni della dottrina nazista sarebbero state vere se il nazismo avesse trionfato nella Seconda guerra mondiale. La replica di James è che occorre considerare il successo e l'utilità su un lungo arco di tempo, ma è ovvio che anche questa mossa comporta spiacevoli conseguenze. In molte occasioni, infatti, ci risulta impossibile sapere se le proposizioni sono vere, ovvero se si concretizzano in un qualche duraturo successo. Ad esempio, si pensi alle proposizioni "l'amore è preferibile all'odio", o "l'onestà è preferibile alla disonestà", o "la democrazia è preferibile alla dittatura": se adottiamo il suddetto criterio, dovremmo attendere la fine della storia per poter decidere se sono vere o false. D'altra parte, invece, il pragmatismo ci potrebbe condurre ad affermare che proposizioni quali "la terra è al centro dell'universo" sono vere, in virtù del fatto che sono state considerate a lungo di successo e utili».
Il pragmatismo non si interessa solo di verità, mentre le riflessioni di Peirce, James, Dewey, e via dicendo, si attestano più complesse di quanto si sia costretti a condensarle. Per di più, problemi quali quello dell'esperienza, delle rappresentazioni, del fallibilismo, dello scetticismo rimangono priorità affrontate con cognizione di causa, tentando vie inattese o poco battute. Palese, però, che non vi siano solo i padri, e così Michael Bacon distingue tra pragmatismo delle origini, intersezioni (a mio avviso, parecchio problematiche) tra pragmatismo e filosofia analitica (individuate da Bacon stesso in Quine, Sellars, Davidson) e nuovo pragmatismo (rappresentato da Rorty e Putnam, con quest'ultimo che, come ben sappiamo, ha mutato mille volte idea), per passare poi ad affrontare questioni di maggior respiro, quali i rapporti tra filosofia continentale e pragmatismo stesso, il ritorno contemporaneo al pensiero di Peirce, la differenza tra pragmatismo razionalista e quello naturalista.
In un corposo e, al contempo, conciso discorso (conciso rispetto alla sua presa di posizione sulla filosofia americana) Pragmatism avanza tesi generali, che lasciano aperte domande non marginali: tra le tante, Richard Rorty appartiene o no alla schiera dei pragmatisti, considerato che si è dichiarato pragmatista, ma che al contempo, a differenza di Peirce e Dewey, pensa che nulla di costruttivo si possa dire sulla verità? Questo per ricordare che il pragmatismo prosegue con l'apparirmi confuso. Eppure Robert Brandom (pragmatista o non pragmatista?) ritiene che Bacon esamini una tradizione filosofica ricca, insieme ai suoi sviluppi contemporanei che conferiscono onore a quella tradizione. Certo, ricca, magari e proprio, aggiungo, di confusioni.
Forse, rimane preferibile, almeno in questo caso, ricorrere alla storia intellettuale e alla storia della filosofia, per confrontarsi con una tradizione che – lo ammetto – continua a esercitare una discreta influenza sul pensiero contemporaneo. Un storia, però, come ben rileva Cheryl Misak, in cui emergono chiare le potenti connessioni tra pragmatismo, filosofia anglo-americana (filosofia che, sul versante americano, col pragmatismo non viene così a coincidere), empirismo logico. Una storia con un lieto fine, perché Misak vi sostiene che, se si vuole difendere il pragmatismo, occorre collocarlo all'interno della filosofia analitica.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Michael Bacon, Pragmatism, Polity Press, Cambridge, pagg. 224, £ 55,00
Cherly Misak, The American Pragmatists, Oxford University Press, Oxford & New York, pagg. 304, £ 25,00

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