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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2013 alle ore 08:38.

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Se non fosse che tutto ciò che vi si racconta è rigorosamente documentato e si fonda su ricerche d'archivio minuziose, il volume che Paolo Baldacci e Gerd Roos hanno dedicato alla Piazza d'Italia (Souvenir d'Italie II) di Giorgio de Chirico, datata 1913, lungamente al centro di un affaire clamoroso, potrebbe essere suggerito come un eccellente «giallo per l'estate». In realtà, sebbene di un vero "giallo" si tratti, la sua lettura richiede più attenzione di quella normalmente riservata ai libri da ombrellone. Ma è anche ben più appassionante, specie per gli amanti del l'arte.
La storia, intricatissima, ruota intorno al celebrato artista (ma uomo dal carattere bizzoso e instabile, egocentrico e vittimista, oltreché fieramente vendicativo) che nel 1947, alla vista di quell'opera (gracilina, a dire il vero), mostratagli da una collaboratrice del critico e mercante romano Dario Sabatello, che l'aveva acquistata alla Galleria del Milione di Milano, montò su tutte le furie, la dichiarò «una bruttissima e grottesca copia» e tentò di sequestrarla affinché «non potesse più circolare».
Il quadro fu oggetto di un lungo processo (1947-1956) che in primo grado diede torto all'artista confermandone l'autenticità. Appello e Cassazione avrebbero però ribaltato il giudizio: Souvenir d'Italie II fu giudicato una copia, come asseriva l'autore, e se ne dovettero abradere la firma e la data. E questa resta tuttora l'opinione della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, con cui l'Archivio dell'Arte Metafisica, fondato da Baldacci e Roos, ha ingaggiato da tempo e su numerosi temi un duro confronto.
Perché mai, si chiedono i due autori, de Chirico pretese il sequestro di un'opera che falsa invece non era? Perché accusare, di fatto, un collezionista impeccabile come Alberto Della Ragione, che l'aveva acquistata da lui stesso nel 1933, di averla sostituita con una copia, facendone quindi un malfattore? E infine: dove sarebbe finito l'originale, mai ritrovato?
Per rispondere a queste domande e provare l'autenticità del quadro gli autori scavano nelle sentenze e nelle deposizioni, investigano articoli e interviste del tempo, consultano epistolari e si avvalgono per la prima volta delle informazioni contenute in una sua lettera del novembre 1947 al mercante V.E. Barbaroux, passata di recente in asta a Parigi. Una lettera cruciale, che svela parecchi retroscena e contraddice molto di ciò che de Chirico scrive nelle sue Memorie riguardo a questa vicenda, alla quale dedica una mole di pagine piene di veleno.
Secondo la loro ricostruzione il quadro era sì un "falso", ma il falsario era lo stesso de Chirico, che lo aveva datato 1913 pur avendolo eseguito a Parigi nel l'estate del 1933, pressato dalle richieste di dipinti metafisici da parte del direttore del Kunsthaus di Zurigo Willhelm Wartmann, in vista della personale che gli stava allestendo, un anno dopo quella memorabile di Picasso. Un mostra vitale per lui, che attraversava un periodo nero: pochissime vendite e i tignosi avvocati della prima moglie Raissa alle calcagna.
Fu così che de Chirico imboccò la strada scivolosa delle opere retrodatate. Di quadri metafisici non ne aveva più (lo aveva scritto lui stesso a Wartmann e all'amico pittore Romano Gazzera), e a Zurigo voleva esporre (e vendere) solo opere di sua proprietà. Ma Wartmann insisteva: gli assicurò così che sarebbe andato a Parigi a «raccogliere quadri metafisici per la mostra» facendoseli prestare dai primi collezionisti. Giunse infatti a Zurigo con due opere "del 1913" (due Souvenir d'Italie, il secondo dei quali è il nostro, come prova l'esame del telaio) e una "del 1916": ma dai documenti del museo è chiaro che le opere erano di sua proprietà, e non in prestito.
La mostra fu un fiasco, tutto rimase invenduto. Appena rientrati i quadri a Milano, de Chirico si affrettò a chiamare i maggiori collezionisti, primi fra tutti Pietro Feroldi e Della Ragione che gli acquistarono i due Souvenirs, diversi per formato ma stilisticamente identici. E soprattutto identici alle opere che dipingeva in quegli anni: colori chiari, ombre smorte, materia liquida. Insomma, i primi dei molti dipinti neo-metafisici con cui avrebbe invaso il mercato per soddisfare una richiesta che si faceva sempre più imperiosa. Del resto, come avrebbe detto nel 1935 a Max Ernst, «è la cosa più facile del mondo fare questo tipo di pitture, se si trovano degli stupidi che le comprano».
Vero è che quando fece sequestrare il quadro, de Chirico – legittimamente esasperato dai falsi metafisici che da qualche anno circolavano in America, diffusi dall'italiano Mario Girardon, e in Europa, a opera del surrealista Oscar Dominguez spalleggiato da Paul Eluard – era convinto che vi fosse un «complotto surrealista e modernista» ai suoi danni, teso a valorizzare la pittura metafisica, di cui non possedeva più nulla, e svilire invece la successiva, con cui doveva pur continuare a campare.
Ma ciò che in realtà lo feriva era la consapevolezza di essere «un sopravvissuto» e di essere ormai considerato a livello internazionale solo come padre della Metafisica, e quindi come precursore dell'odiato Surrealismo: freudianamente, l'oggetto del suo odio divenne proprio la Galleria del Milione dei fratelli Ghiringhelli, che prima della guerra aveva trattato i suoi (veri) dipinti metafisici, specie ferraresi, e con la quale pure continuò a collaborare fruttuosamente fino al 1941-42. Nella sua mente prese corpo l'idea che i Ghiringhelli stessero «boicottando con un'ignobile e indegna campagna» (così nelle sue Memorie) la sua produzione contemporanea per valorizzare quella metafisica. E meno che mai poté sopportare che scoprissero la sua attività di «falsario di se stesso». Ripudiare quel dipinto venduto dal Milione, assestando un colpo durissimo all'immagine della galleria, fu dunque la sua micidiale e clamorosa vendetta.

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