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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2013 alle ore 08:39.

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Essere un gallerista d'arte contemporanea non significa solo vendere. La scelta degli artisti da trattare passa attraverso un iter di contatti umani, discorsi, coinvolgimenti affettivi che travalicano in sintonia culturale e viceversa. E a volte chi arriva a vendere lo fa perché, avendo iniziato come critico, trova ipocrita fare solo il traduttore in parole di oggetti e immagini che ama. Si vuole fare committente per dare agli artisti che ritiene degni di nota non solamente un appoggio morale, ma anche un supporto per sopravvivere e una mediazione verso i musei e le mostre: senza l'appoggio di una galleria non si va lontano, e questa deve essere oltretutto una struttura che non si ferma al commercio ma si propone come una garanzia di qualità. Un percorso esemplare in questo senso è quello che ha fatto Mario Diacono (Roma 1930), testimoniando come certi dilemmi non siano cosa di oggi ma siano nati nel secondo Novecento. Segretario personale di Giuseppe Ungaretti per sette anni, amico di letterati come Pierpaolo Pasolini e Sandro Penna, vicino a critici come Cesare Vivaldi ed Emilio Villa, Diacono conobbe tutta la Roma attiva negli anni Cinquanta e Sessanta: quella della leggenda, dove ci si incontrava al Bar Rosati di Piazza del Popolo e si viveva un dopoguerra fatto di senso di rinascita ma già vicino a un crinale decadente.
Nella sua lunga attività, volutamente raffinata e defilata, Diacono è passato dalle visite compulsive allo studio di Kounellis, dalle frequentazioni con Twombly e Schifano, a quando aprì le sue molteplici gallerie a Bologna, Roma, New York, Boston e quindi a un mondo che includeva Jon Jonas, Vito Acconci, Richard Serra e tutta la rivoluzione linguistica che venne dopo la pop art e in opposizione a essa.
Poeta egli stesso, nella sua prima attività di critico iniziò a usare un linguaggio tutto suo: senza maiuscole, fratto, intellettuale, volutamente secco. Una scrittura creativa che era anche figlia dell'ermetismo, dell'idea di contaminare il senso con l'immagine stessa della scrittura, con il ritmo delle parole che doveva ricostruire quello di un'opera o di un incontro. Un libro edito da Postmediabook, con una postfazione a cura di Laura Cherubini, raccoglie ora i suoi scritti maggiori dagli esordi a Roma e a Milano fino alla fuga americana dopo un invito a insegnare a Berkeley.
La scrittura, concepita come «funzione specchiante della parola di fronte alle arti figurative», non venne mai abbandonata ma si fece più pratica e descrittiva, da un lato, e dall'altro più vicina agli standard accademici anglosassoni. Favorito dal fatto di dovere usare l'inglese in prima persona o di essere comprensibile a un traduttore, il discorso diventa più piano anche se non per questo meno complesso. Anzi: l'autore descrive i processi creativi di Robert Morris o di Vito Acconci, il primo che compatta la forma rendendola minimale, il secondo che sonda la struttura del comportamento. Nel far questo è obbligato ad abbandonare un andamento impressionistico per abbracciare una disamina logica strutturata.
Gli Stati Uniti rendono più profondo l'approccio sociale della scrittura, che si interseca al livello formale. I temi vengono individuati con più chiarezza, primo tra tutti quello di un diverso trascorrere della temporalità, conseguenza della società industriale, già annunciato dai Cubisti, dai Futuristi, da Duchamp per arrivare ad Arakawa e Bruce Nauman. Consapevole che l'artista «é un personaggio in rivolta nella commedia del plusvalore» e che il successo dell'arte contemporanea rende evidente «il grado di sofisticazione di cui è capace la società borghese», Diacono non cita i suoi riferimenti ma è chiaro che passa da Karl Marx al poststruttralismo e oltre. Nella parabola che ci raccontano i suoi saggi, spesso presentazioni per le mostre che organizzava nella sua galleria, Mario Diacono narra i circoli dell'Arte Povera come quelli del Concettuale americano, passando attraverso Sandro Chia e altri protagonisti dei tardi anni settanta del ritorno alla manualità. Non c'è mai dogmatismo ma sempre voglia di osservare, quasi come un cronista dallo sguardo lucido e appassionato. È interessante seguire il farsi dei movimenti mentre ancora i protagonisti erano ancora tutti insieme, inclusi quelli che poi sarebbero stati epurati, ciascuno per un motivo diverso, da Piero Gilardi a Gianni Piacentino e Aldo Mondino.
Nell'era dei curatori, c'è da chiedersi che ruolo abbia la scrittura e se il critico d'arte abbia ancora un ruolo, dopo essere stato sostituito dal curatore di mostre. Forse è giusto così, tanto è vero che Diacono stesso aveva ritenuto necessario associare quest'attività alla creazione di esposizioni, alla vendita e alla docenza. Forse invece si è perso qualcosa. Un discorso esplicativo come quello dedicato alla lettura di Fluxus, anzi a "fluxura", che arriva a menzionare le coreografie di Ann Haprin e a mettere in comune musica, danza, ambiente e visualità, fa venire nostalgia di avere interpreti consapevoli, testimoni oculari capaci di connessioni tra Yoko Ono e Heidegger, che partono dalla cronaca e che costruiscono la storia mentre vivono in diretta. Un'ulteriore nota amara apre riflessioni che potrebbero valere anche oggi. Il giovane artista romano, ma italiano per estensione, italiano per Diacono è «carrierista per necessità e definizione. La cosa impossibile è trovarlo agganciato a qualsiasi tipo di opposizione culturale... Non ricordo dibattiti o polemiche, in questi ultimi anni, se non per la presenza alla Biennale o per gli acquisti della Galleria d'Arte Moderna. A una consapevolezza di problemi si è sostituita una cultura puramente istintiva e sommaria». Parole del 1 marzo 1967. Siamo riusciti a rimediare? E se invece è ancora così, dove abbiamo sbagliato?

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