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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2013 alle ore 08:53.

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La crisi che da oltre cinque anni ha trasformato le agende e le strategie politiche europee ha finito per far prima vacillare e poi mettere in discussione il progetto più raffinato di cooperazione che i paesi fondatori del l'Unione europea abbiano costruito: l'euro. In ogni paese in cui i cittadini eseguono quotidianamente transazioni in euro, la fiducia nella moneta unica è ai minimi, e a essa si attribuiscono responsabilità di ogni tipo: dall'impoverimento della classe media, alla crescita della diseguaglianza, allo stallo di cui i sistemi economici continentali sembrano prigionieri. Pressoché nessuno, se non in modo sterilmente declamatorio, ricorda quale straordinario sforzo politico costituisca il fondamento di una moneta nata con una vocazione globale.
È vero che il processo avviato l'indomani della chiusura unilaterale del sistema di Bretton Woods ha creato per la prima volta una moneta priva di uno Stato di cui essere l'epitome, e tuttavia non è sufficiente liquidare la questione con le parole di Wim Duisenberg, che riteneva la forza dell'euro indiscutibile poiché somma del potere degli Stati nazionali dell'Eurozona. È altrettanto vero che la moneta unica rappresenta un successo storico probabilmente irreversibile, fatto di ricerca della stabilità e di attualizzazione di un'identità comune che tenta di rispondere all'interrogativo sul futuro di un continente battezzato più di venticinque secoli fa, ma ancora allo stadio di progetto.
Il processo politico che condusse all'euro è abilmente ricostruito in due libri usciti pressoché insieme con ambizioni e pubblici potenziali diversi, eppure simili nel raccontare il percorso che ha ridefinito i confini ideali della costruzione europea. Il primo, di Emmanuel Mourlon-Druol, forte di una ricerca archivistica imponente, esamina per la prima volta in maniera molecolare il negoziato e il lancio del Sistema Monetario Europeo (Sme), delineando come esso fu l'esito di un disegno franco-tedesco avanzato nell'aprile 1978 dai suoi artefici: Valéry Giscard d'Estaing e Helmut Schmidt. Il piano tentava di conciliare l'ambizione dei francesi verso un sistema nel quale riaffermare la propria leadership continentale e il rigore tedesco che aveva ricavato al marco il dominio dei mercati valutari europei.
Il progetto prevedeva l'emersione di un "blocco continentale" fondato su un sistema monetario internazionale indipendente dal dollaro. Il compromesso che dette origini allo Sme superò le resistenze del presidente della Bundesbank, Otmar Emminger, e di parte dell'establishment tedesco, persuasi della possibilità di una sostituzione del marco al dollaro come moneta-chiave del capitalismo europeo. Nel 1978 le condizioni per l'avvicendamento tra le due monete esistevano tutte, e tuttavia tale soluzione non avrebbe risposto alle esigenze di un'area economicamente integrata e produttivamente complementare quale quella comunitaria. A ciò si aggiungeva l'ossessione della Banca centrale tedesca di essere costretta a imbarcare inflazione dai partner più deboli. Preoccupazione peraltro non sopita anche quando il piano fu varato: solo tre anni prima Bonn non avrebbe osato avventurarsi in niente di così emancipato da Washington. Eppure, un insieme di variabili contribuirono al cambiamento di attitudine dei tedeschi verso l'accordo. Il non-sistema monetario internazionale del 1978 ruotava ancora intorno al dollaro, che l'amministrazione Carter sosteneva avere una quotazione non legata alla politica statunitense, e questo fu considerato un ennesimo segnale della rielaborazione della leadership americana rispetto all'Europa occidentale.
Lo Sme reintroduceva, su scala regionale, il sistema delle parità saltato con Bretton Woods e, come il sistema da cui prendeva spunto, affrontava due aspetti complementari: la stabilizzazione dei tassi di cambio, e un nuovo impulso all'integrazione del mercato comunitario. E lo faceva con la consapevole omissione da parte dei suoi negoziatori di obiettivi economici condivisi, il che permise l'apertura a modi nazionali di interpretare il sistema che ne amplificarono le fragilità e ne determinarono, insieme alla crisi finanziaria internazionale, il collasso.
Il libro di Harold James prosegue la storia dell'integrazione monetaria oltre il 1992 osservandola da un palco privilegiato: il Comitato dei governatori delle Banche centrali europee. Così, squarciato il velo della retorica politica, vediamo affollarsi un agguerrito esercito di tecnici che credette davvero nel progetto di un'Europa unita, e che pur di realizzarla tollerò un sistema privo di regolamenti bancari e regole fiscali comuni che avrebbero accelerato una convergenza inceppata dalla sensibilità europea al ciclo economico internazionale. E lo fecero riponendo fiducia in un completamento poi disatteso dell'accordo.
La maestria di James sta nel sollevare il sipario sulla cabina di regia del processo d'integrazione monetaria fino alla creazione dell'unica organizzazione europea politicamente in grado di far sentire la propria voce: la Banca Centrale Europea. La prospettiva adottata, collazionare le peculiarità europee all'evoluzione del sistema internazionale, fa di questo libro un Baedeker di storia europea recente, capace di smantellare luoghi comuni passati acriticamente dalla cronaca alla storiografia. Nel libro non sono risparmiate critiche acuminate al Trattato di Maastricht e alle ragioni che lo costruirono più come la sommatoria di anguste velleità nazionali che come lo strumento adeguato ad affrontare i cicli recessivi. Il passaggio dalla tecnica alla politica, l'enfasi di un europeismo più proclamato che praticato, l'aprioristica fiducia in una vaticinante fine della Storia propiziata dalla conclusione del conflitto bipolare contribuirono a professare una costruzione monetaria esemplata sulle esigenze del più forte.

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