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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2013 alle ore 08:40.

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Sbalestrano taluni quando la estendono illimitatamente. Ma sbandano talaltri quando la restringono indebitamente. È così che in questo groviglio di linee, ora troppo allentate e ora troppo contratte, se ne va perduta la fisionomia stessa della libertà di parola. Ben venga dunque questo saggio di Nigel Warburton che alla fine di una lunga infilzata di pro e di contra ci consegna un equilibrato accordo sul vero. E il vero è che la libertà di parola non coincide affatto «con la libertà di dire in ogni momento ciò che si vuole... ci sono dei limiti». E a nulla vale appellarsi alla «neutralità» dello Stato liberale per querelarsi dei vincoli che la trattengono in ambiti definiti (ampli, amplissimi, questi ambiti; ma sempre dai confini segnati a punta d'acciaio). Perché, vedete, questa della «neutralità» liberale è nozione equivoca che se non precisata bene fa presto a ruzzolare in scorrettezza concettuale.
È improprio sostenere che lo Stato liberale sia neutrale perché circoscrive le sue funzioni al mantenimento dell'ordine. Se anche fosse completamente così (e così non è mai stato), bisognerebbe ricordare che non esiste «l'ordine», l'ordine astratto; esiste invece un certo tipo di ordine, e lo Stato è liberale quando assicura il mantenimento di quel particolare tipo di ordine che è l'ordine informato a valori così e così determinati. E poiché ad esempio tra questi valori spicca la pari dignità di ogni cittadino, ecco che a nessuno, da nessuna parte, neppure nel più tollerante Stato del mondo, a nessuno è lecito ingiuriare o diffamare il prossimo il cui decoro, evidentemente, scapita assai sotto il peso della parola ingiuriosa o diffamatoria. Che appunto perciò provoca la reazione violenta dei poteri pubblici i quali stanno lì a difendere il loro ordine dalle minacce destabilizzanti del delitto. È stato sempre così e presumibilmente così sarà sempre. Con una precisazione, però; che la minaccia, oggi almeno, è costituita dalle azioni e non più dalle opinioni sovvertitrici. Non basta cioè il pericolo potenziale, occorre quello reale ed effettivo dell'atto delittuoso perché scattino le difese dello Stato liberale. Finché l'opinione rimane tale, essa ha come dell'aeriforme che la consegna alla sfera incoercibile dell'individuo.
Ma, appunto, finché rimane opinione. Può ben darsi invece che il legame tra la parola e l'azione sia così diretto, pronto e istantaneo, che non è più possibile distinguere l'una cosa dall'altra, con la conseguenza che gli effetti del «fare» rimbalzano all'indietro e si riverberano sull'«opinare» che lì per lì lo ha prodotto. Per cui se quel «fare» è giudicato reato dal Codice, reato sarà pure l'idea che gli sta attaccata dietro. Donde in questo caso, ma solo in questo caso, la punibilità dell'opinione. Come si vede, siamo a quella regola dell'«immediato e presente pericolo» che, caduta dal primo inchiostro di Stuart Mill, trovò poi la più completa formulazione nelle sentenze del giudice Holmes (ed è sulla spola tra questi due autori, che Warburton tesse la trama dei suoi ragionamenti più sottili). Peccato che anche alcuni autori liberali abbiano come tenuto in penitenza questo principio. Se lo avesse messo a profitto, per esempio, mai e poi mai Hayek avrebbe potuto scrivere così: «Ciò che rende un individuo membro di una società, e gli dà dei diritti, è il fatto di obbedire alle sue norme. Opinioni completamente contrarie possono dargli diritti in altre società, ma non nella nostra». Sarebbe così come vuole Hayek solo, per dire, se arringando una folla già eccitata e armata di tutto punto, io le additassi un bersaglio concreto contro cui avventarsi per far valere le ragioni della «guerra di classe». Quello sì, sarebbe un pericolo «immediato e presente». Ma se salgo su una sedia sgangherata, e dinanzi a passanti ora incuriositi ora semplicemente divertiti, prendo a tuonare contro il Parlamento e la proprietà privata, perché e chi mai avrebbe il diritto di tacitarmi?
Non solo. C'è di più. C'è che se per avventura proprio quella mia opinione conquistasse pian piano l'adesione degli spiriti, nel rispetto dunque di un civile confronto e senza mai recare violenza ad alcuno, ebbene precisamente quell'opinione lì avrebbe diritto ad avere libero corso senza la mordacchia della censura o il bavaglio dei gendarmi. Sarebbe la fine del sistema liberale? Sì, certo. Sarebbe la fine del sistema liberale. Che però, proprio nel momento della morte, celebrerebbe il più alto dei suoi principi: quello per il quale «allo scopo di sopravvivere, gli uomini liberi non debbono rinnegare le proprie ragioni di vita... Gli uomini amanti della tolleranza hanno il dovere di combattere sino all'ultimo; ma combattendo, non possono rinunciare a essere se stessi». Così Luigi Einaudi, con parole che suonano di monito per noi che oggi abbiamo il nemico non di fronte ma già penetrato nelle nostre difese.
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Nigel Warburton, Libertà di parola, Raffaello Cortina Editore, Milano,
pagg. 140, € 13,00

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