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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2013 alle ore 08:44.

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All'inizio di The Undivided Past David Cannadine, storico inglese e professore a Princeton, descrive il suo obiettivo polemico: «Sembra quasi assiomatico che il modo migliore di capire il passato, e anche le circostanze presenti e le prospettive future, sia studiando l'azione e i risultati di conflitti tra identità antagonistiche, ovvero come vanno le cose nel gran gioco di "noi contro di loro"». Lo scopo che si prefigge è difendere «una visione più ecumenica e ottimistica delle relazioni umane, che incarni ed esprima un più ampio senso di umanità oltre le nostre differenze». Nei sei capitoli del libro, affronta le principali forme di identità che si sono contrapposte nella storia – religione, nazionalità, classe, genere, razza e civiltà – e le trova tutte inadeguate ad assolvere al compito di radicale divisione loro sovente assegnato.
Il motivo più ovvio di questa incapacità è il semplicismo con cui, di volta in volta, una forma di antagonismo è stata giudicata fondamentale e universale: la spiegazione per ogni evento, la risposta a ogni domanda. Cannadine un po' ricorda la favola degli altri animali che prendono gusto a scalciare il leone morente quando stigmatizza le generazioni di suoi colleghi che hanno conseguito successo accademico identificando la storia della società con la storia dei conflitti di classe; e ha facile gioco a notare, a un quarto di secolo di distanza dalla caduta del Muro, che molti di quegli stessi colleghi si sono poi riconosciuti in errore. La tentazione di offrire a politici e giornalisti slogan di facile utilizzo non è però svanita, ha solo cambiato pelle, come mostra l'improvviso successo del testo di Samuel Huntington The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (pubblicato nel 1997) subito dopo l'11 settembre.
Venendo al contenuto specifico delle presunte identità, ma rimanendo su un piano ancora superficiale, Cannadine osserva che esse non hanno il potere di aggregazione che viene loro attribuito. Il femminismo, per esempio, è sempre stato diviso al suo interno, sia per le molte differenze (economiche, sociali, intellettuali) fra le persone di genere femminile sia per un profondo disaccordo su quale fosse il progetto da perseguire: uguaglianza o rispetto per un'innegabile differenza? Omogeneità o il suo contrario? Queste scissioni interne hanno fatto sì che fosse sostanzialmente impossibile contare i gruppi associati a una qualsiasi identità (quante sono le razze? Due, come affermavano Kant e Thomas Jefferson, o quattro, secondo la tesi di Linneo, o sei, come invece riteneva Buffon?) e che ci siano sempre stati tanti atti di ostilità all'interno di un particolare gruppo quanto fra gruppi diversi (come vale per ciascuna delle ventuno civiltà distinte da Arnold Toynbee nei dodici volumi di A Study of History).
A un livello ulteriore, e più interessante, ciascuna di queste differenze è stata non meno un'occasione d'incontro che di conflitto: fra i membri dei gruppi che avrebbero dovuto giudicarsi contrapposti si è intessuto un insieme di conversazioni, di scambi, di legami che hanno di fatto rinnegato, nella quotidianità dell'agire se non nei proclami dei leader, le contrapposizioni stesse. Nel sedicesimo secolo il Mediterraneo, ipotetico terreno di lotta all'ultimo sangue fra cristiani e islamici, «era solcato da mercanti, ambasciatori, pirati, viaggiatori, studiosi e profughi, per i quali esso era più un'autostrada che una barriera». «È chiaro che cristiani e musulmani sono spesso vissuti insieme in modo costruttivo e amichevole, che si sono reciprocamente insegnati come vivere e hanno imparato molto gli uni dagli altri».
Una volta negata la credibilità di simili concetti globalizzanti, però, quale sarà il nostro prossimo passo? Cannadine non vuole certo negare che esistano differenze, anche importanti, fra gli esseri umani; ma sostiene che, un po' come i media preferiscono le brutte notizie, gli storici preferiscono calcare la mano sui motivi di divisione invece che, come lui auspica, sulla nostra natura indivisa. Cita con soddisfazione il dato genetico che le persone di "razze" diverse hanno in comune il 99,9% del loro Dna. In generale, dichiara: «Una storia che insista solo sulle divisioni ci nega la giusta eredità di quanto abbiamo sempre condiviso. È almeno altrettanto utile prendere come punto di partenza la nostra essenziale unità».
Fin qui lo storico. Il filosofo, però, deve interrogarsi: di quale unità stiamo parlando? Di quella aristotelica: un'elisione delle differenze, una riduzione al minimo comun denominatore (come suggerito dal riferimento al Dna delle razze)? O invece di un'unità dialettica, faticosamente acquisita mediante il confronto con le differenze e la fragile ma preziosa ricerca di uno stato che faccia loro, contemporaneamente, giustizia? Il riferimento alle conversazioni, agli scambi, agli insegnamenti fra gruppi contrapposti mi fa pensare a questa seconda, per me più degna, alternativa.
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David Cannadine, The Undivided Past: Humanity Beyond Our Differences, Knopf, New York, pagg. 340, $ 26,95

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