Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2013 alle ore 08:46.

My24

Le interviste di registi a registi sono quasi un genere a parte dell'editoria. Di solito si tratta di un giovane che viene dalla critica, e che rende omaggio a un maestro, meglio se dimenticato o frainteso.
Lo ha fatto Truffaut con Hitchcock, Lindsay Anderson con John Ford, Cameron Crowe con Billy Wilder, e ovviamente Peter Bogdanovich con Orson Welles. Il libro-intervista di Giuseppe Tornatore a Francesco Rosi è invece qualcosa di un po' diverso, perché l'intervistatore è un regista famoso più o meno quanto l'intervistato, che si confronta con il maestro non all'inizio della propria carriera, ma con trent'anni di carriera alle spalle. Con encomiabile pudore, va detto: Io lo chiamo cinematografo è un libro al servizio di Rosi, di cui riesce a restituire la voce anche attraverso una struttura piuttosto libera, non pedante, che va avanti e indietro facendo tornare personaggi, periodi, momenti. Seguendo il flusso dei pensieri più che la rigida partizione per argomenti o fasi.
La storia di Rosi è insieme unica e significativa di una generazione. Le pagine dedicate alla famiglia d'origine, al padre e al nonno piccolo-borghesi napoletani, hanno un sapore eduardiano, e le avventure picaresche dopo l'8 settembre e nella Napoli liberata fanno il paio con quelle di Steno, Soldati o Longanesi (mentre compaiono personaggi come Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Maurizio Barendson). C'è l'avventuroso set di La terra trema, e il continuo commosso rievocare figure della vita personale (la moglie Giancarla). Il lettore potrà, sulla scia del libro, mettersi a rivedere i film di Rosi, quelli noti e quelli meno noti, e vedere come reggono, o come mutano, alla prova del tempo. E oltre ai classici come Salvatore Giuliano (1961), potrà magari scoprire la forza inattesa di film come I magliari (1959) o Tre fratelli (1981), cioè titoli che più di sbieco toccano il presente, attraverso la commedia o l'elegia.
Ci si può fermare a rimpiangere che in C'era una volta (1966) San Giuseppe da Copertino non sia stato interpretato da Totò. Si ricostruiscono progetti non realizzati, come La galleria (dal libro di John Horne Burns) o il film su Che Guevara. Si incontrano intellettuali che segnano il percorso del regista in maniera diretta o indiretta: fra tutti, Leonardo Sciascia e Tonino Guerra. Ovviamente, trattandosi fin dal titolo della conversazione tra due uomini di "cinematografo", l'angolazione è anche parziale. Il libro approfondisce più il mestiere che il contesto, si parla più di Piero Notarianni (leggendario organizzatore cinematografico, e molto altro) che di Gaetano Salvemini, riferimento culturale fondante nell'opera di Rosi.
Ma questo ha anche un lato positivo, perché attenua la visione di Rosi regista "politico", legato alla cronaca e all'impegno civile. Dal libro viene fuori anche l'immagine di un professionista e di un appassionato di cinema (e di teatro), un artista e uomo di spettacolo. Un cinefilo cresciuto sì alla scuola di Luchino Visconti (cui viene reso qui omaggio), ma anche nella passione per il cinema americano, Ford anzitutto. Uno che ha attraversato la radio, il doppiaggio, il teatro, il cinema popolare (come assistente di Raffaello Matarazzo). Nei suoi film sentiamo sì la complessità del cinema moderno, ma anche e la secchezza e il polso del cinema americano di genere: il western, il noir, il mélo, il film di guerra. Si pensi a La sfida (1956) a Le mani sulla città (1963), da Uomini contro (1970) a Lucky Luciano (1973).
Dopo aver letto i libro, si è tentati di cercare una presenza diretta di Rosi nei suoi film. E, certo, non c'è autore meno autobiografico e meno "in prima persona" di Rosi. Eppure a volte, per rendere il groviglio delle cose che narrava, il regista si è messo in scena tra i personaggi (in Il caso Mattei, 1972, e in Diario napoletano, 1993), e nel libro si raccontano anche un paio di autoritratti nascosti. Il primo: un Turi Ferro (giudice del processo alla banda Giuliano, nel film del '61) scelto anche per la somiglianza col regista. Il secondo, un Rosi che interpreta Lucky Luciano facendo da controfigura a Gian Maria Volonté nelle scene girate negli Stati Uniti, dove l'attore non poteva entrare perché comunista.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Francesco Rosi, Giuseppe Tornatore,
Io lo chiamo cinematografo, Mondadori, Milano, pagg. 470, € 18,00

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi