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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2013 alle ore 08:46.

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Questa volta niente decalogo: al Tell di Graham Vick non servono avvocati difensori. La nuova produzione per il Festival Rossini passa a pieni applausi. E dire che è politicamente schierata, ha un festino centrale con scene di sesso e violenza, azzera la natura e al posto del consolante arcobaleno finale fa scendere dall'alto una asperrima scala rossa. E come se non bastasse obbliga pure a tradurre dal latino, con due belle citazioni, da Boccaccio (eh sì, gli inglesi lo studiano meglio di noi) e da una lapide esistente, a Lucerna, che inneggia alla virtù e alla fedeltà degli svizzeri. Coeva al Tell, ma pennellata a vista a caratteri cubitali, come fosse della Comune di Parigi.
Vick interpreta, come sempre. Con straordinaria intelligenza. Ma come non sempre fanno i suoi colleghi, si attiene a due regole fondamentali: la prima è il rispetto per la musica e per i cantanti. E infatti le sue regie suonano meravigliosamente. Al Tell abbiamo sentito un Coro del Comunale di Bologna che sembrava lo Schönberg Chor di Vienna, tanto era dettagliato nel restituire la tinta, il carattere di ciascun numero. Collocato in tre nicchie diverse, a varie altezze nella scatola bianca immacolata di Paul Brown, permetteva di ascoltare finalmente in maniera stereofonica tutta la novità di assiemi diversi (ora il popolo svizzero, ora le donne, ora i militari oppressori) su testi opposti, però insieme. Guillaume Tell è fatto soprattutto di scrittura corale: commovente, inventiva, screziata, ma anche beffarda e disincantata, molto più in là dei famosi Cori verdiani. Con dentro tutta la malinconia del volontario addio alle scene del compositore, a 37 anni.
La seconda regola di Vick è la fedeltà al libretto. Tutto è scritto. Chi critica, non li ha letti. Spesso è maniacalmente pignolo: Rossini vuole un pas de six nel primo atto? Eccolo. Diligentissimo. Moderno, ovvio, nella coreografia di Ron Howell: volete che dopo Pina Bausch e sui monti svizzeri si danzi col tutù? Le tre coppie dicono tutta la rabbiosa felicità di un mondo di poveri, in uno spicchio di Eden perduto. Le danze invece del terzo atto (siamo al grand-opéra, cori e danze fanno la differenza), come vuole la didascalia di Étienne de Jouy e Hippolyte Bis, chiedono una scena di violenza: la messa alla berlina dei rustici tirolesi, di fronte ai generali austriaci. Rossini scrive aguzzo, tagliente, passatista, come farà Shostakovic quando mima la marce del potere. I ballerini evocano lugubri festini nazisti, perfetto archetipo di brutalità che dai libretti si trasformeranno in realtà. Le donne coi grembiulini e le treccine sbeffeggiate come oggetti, un giovane costretto a fare sesso orale con un militare. La vista è forte. Ma diventa coerente anche il famoso tiro alla mela, di Tell sulla testa del figlio: apice di una perversione sadica, non la falsa cartolina della felicità svizzera.
Ci perdonino cantanti e direttore, se questa volta li abbiamo lasciati in fondo. Fanno un'ottima locandina. Michele Mariotti tiene con slancio e perfetta verticalità la partitura, in crescendo. Sono fantastici Florez, con le sue lamine d'oro negli acuti, Nicola Alaimo come ombroso Tell, Marina Rebeka, perfetta nei vulnerabili cromatismi, più esposti che in Wagner, e la splendida Amanda Forsythe, che trasforma il ragazzino Jemmy in eroe, sia con l'Aria che di solito si taglia, sia col gesto finale di salire la scala. Scomoda, dondolante, infinita, come il cammino verso la libertà, intinta del sangue di chi è morto per lei. Non è retorica. È Rossini.
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Guillaume Tell di Rossini; direttore Michele Mariotti, regia di Graham Vick; Pesaro, Adriatic Arena, fino al 20 agosto

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