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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2013 alle ore 07:47.
Nel novembre 1953 esce il primo numero della rivista Playboy. In copertina la fotografia di una giovane bellissima donna nuda, con le gambe rannicchiate, un seno magnifico, i capelli biondi sparsi su un lenzuolo spiegazzato, rosso come le sue labbra un po' aperte. La foto era di Tom Kelley, e Hugh Hefner l'aveva comprata per pochi dollari da una casa editrice di calendari e poster di pin up, che non avrebbe potuto usarla perché troppo "oscena". La ragazza era Marilyn Monroe. Quel primo Playboy vendette cinquantamila copie. In copertina non c'erano né data né numero, tanto era forte la convinzione che non ce ne sarebbe stato un secondo.
Dieci anni dopo, la tiratura di Playboy, nel mondo, era di sei milioni di copie al mese... La playmate e il paginone staccabile diventavano feticci. Tutta una generazione di americani, ha scritto qualcuno, è cresciuta pensando che le donne avessero una graffetta all'altezza della vita. Una filosofa spagnola, Beatriz Preciado, professore di gender studies, ha scritto un saggio geniale che si intitola Pornotopia (Fandango) nel quale spiega come l'inventore di Playboy abbia deliberatamente costruito il maschio occidentale adulto del secondo dopoguerra, inventando e plasmando non solo il suo immaginario erotico, ma la sua idea di mondo, le sue abitudini quotidiane, la sua estetica. E abbia persino collaborato alla liberazione della donne, forse più di quanto abbiano fatto certe femministe che Hefner lo avrebbero volentieri affogato nella sua piscina con le grotte. Quel maschio è Don Draper. L'uomo che tutti gli uomini vorrebbero essere e tutte le donne vorrebbero scopare. E il fascino archetipico di Don è senza dubbio la prima ragione del successo della serie Mad Men. Solo un altro uomo/personaggio ha un effetto simile sul suo pubblico: Montalbano/Zingaretti. Due maschi alfa, certo. Ma non solo. Non tragga in inganno il fatto che le inchieste di Montalbano hanno un'ambientazione contemporanea: la verità è che il nostro commissario nazionale ha l'età morale del suo creatore, l'immenso Andrea Camilleri. Che, guarda caso, è più o meno quella di Don Draper.
Tutti e due sono nati tra il Venti e il Trenta, hanno attraversato una guerra, hanno avuto per le mani Playboy. Quel che ci seduce non è la mascolinità da capo branco, né tantomeno la bellezza, ma quella generazione, quell'uomo che ha percorso in orizzontale tutta la linea d'ombra tra l'assoluto e il relativo, tra la norma e l'eccezione, troppo vecchio per qualsiasi rivoluzione, troppo giovane per sembrare ridicolo. Una specie di ultimo uomo: un rimpianto. La prima serie di Mad Men è ambientata agli inizi degli anni Sessanta. La sigla è un disegno animato. La sagoma nera di un uomo entra in una stanza, un ufficio. Poggia a terra la ventiquattr'ore e tutto intorno a lui inizia a precipitare. I quadri alle pareti, le pareti, e poi lui, a peso morto tra i grattacieli. Mentre cade, scorrono sui vetri delle facciate donne, bambini, bicchieri di whisky: immagini di pubblicità, simulacri di felicità perfette, famiglie, bambini biondi e paffuti. Bianchi, eterosessuali, protestanti: wasp. Poi la stessa sagoma nera si gira, e diventa l'immagine iconica che conosciamo, divenuta per noi l'equivalente della Marilyn nuda sulla copertina di Playboy: una nuca, le spalle, un braccio allungato sulla spalliera della poltrona, i polsini e il collo bianchi, la sigaretta. Nella prima puntata, la sagoma prende vita e diventa Don Draper, che sta prendendo appunti, seduto sulla poltrona di un locale, sorseggiando Old Fashion. Don è un pubblicitario, e lavora nell'agenzia Sterling Cooper. Mad men è il soprannome che si davano quelli come lui, che lavoravano in Madison Avenue. La vita di Don è fatta di alcol, sigarette e moltissima reticenza. È scontroso, presto scopriremo che nasconde un segreto molto serio: Don non è Don.
Ha una moglie, Betty, che, secondo l'usanza del tempo, tiene reclusa in una villetta unifamiliare a far figli e coltivare depressione. Un'altra Betty, Betty Friedan, definì nel suo La mistica della femminilità (1964) quel tipo di casa «un confortevole campo di concentramento suburbano per le donne». Un anno prima Silvia Plath, dopo aver preparato la colazione per i suoi figli, aveva infilato la testa nel forno. «The problem that has no name», lo definisce Friedan: gli americani scoprono la sindrome della casalinga disperata. Due anni prima, Richard Yates aveva scritto Revolutionary Road. Betty somiglia moltissimo ad April, la protagonista del romanzo di Yates: è bella, va a cavallo, fa le torte, è stordita dalla propria impossibilità di comprendere il mondo. Non sa fare l'amore, non sa amare in maniera semplice neanche i suoi figli. Don invece la ama, ma la tradisce compulsivamente. Che cosa quindi rimpiangiamo di quel tempo, perché siamo tutti impazziti per Mad Men? Perché Don e Betty siamo noi. È difficile ormai dire di una creazione «mi riguarda profondamente», come se fossimo diventati incapaci di estrarre un principio universale dall'immanenza. Abbiamo sviluppato una specie di rapporto uno a uno con l'arte: questo piace a me, quell'altro piace a te, questo lo capisco io, questo lo capisci tu. Sono saltati i criteri, ma è saltata anche la capacità di cedere all'identificazione col branco. Solo il passato, solo la nostalgia ci unisce.
E Mad Men è ancora meglio della nostalgia: è quello da cui veniamo, ma nella sua versione nera, psichicamente scossa, viziosa. Non solo: ha un valore mitologico perché quel tempo lì, quando tutto era consentito, si fumava, beveva, scopava a piacimento, non è mai esistito. È una proiezione fantastica della nostra frustrazione. C'è una scena in cui Don, Betty e i figli vanno a fare un picnic. Con quelle loro macchine enormi, color caramella. Scendono, apparecchiano, mangiano. Al momento di andar via, Betty prende la tovaglia con tutti i resti, la scuote, la ripiega e sale in macchina. Sull'erba rimane una distesa di spazzatura. Milioni di spettatori in tutto il mondo a quella scena hanno sobbalzato come me, ne sono sicura. Soltanto ieri pensavamo che la terra fosse nostra, e oggi ci sentiamo in colpa a fare una doccia troppo lunga. Don e Betty sono l'Occidente che sta perdendo la guerra persino contro il buco nell'ozono, ma reale, umano, disperato. Carne e spazzatura: che nostalgia!
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