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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2013 alle ore 07:47.

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L'estate scorsa la mia amica Caterina ha guardato la prima stagione di The Newsroom con esaltazione crescente. Le piaceva la storia, l'ambientazione, l'idea di raccontare l'anno appena trascorso, si era innamorata del protagonista, Will McAvoy/Jeff Daniels (anche se, ogni tanto, sembrava più presa dall'anziano alcolizzato Charlie Skinner/Sam Waterston), aveva pianto ascoltando, in una puntata, una canzone dei Coldplay. Inimmaginabile per lei, i Coldplay. Eppure non la si poteva accusare di lacrima facile. Aaron Sorkin aveva appena trasformato una delle più melense canzoni di sempre, una di quelle che vanno strascicate, accendini in mano, durante i bis ai concerti, I will traaaaaai to fix iu, ti rimetterò in sesto, in un epico inno alla vita. E non si poteva sorridere di questo fix you, non era mica il fix di Olivia Pope o di Jack Shephard (due fissati col to fix di cose e personaggi, in tutti i sensi). Qui si parlava di Gabrielle Giffords, una persona e una storia vera; e dell'inarrestabile voglia che quella puntata lì ti faceva venire di attaccare sul retro dell'auto gli adesivi per la campagna presidenziale Giffords 2016.

Poi, a settembre, Caterina ha ripreso il suo lavoro, redattrice di un talk show politico a Milano. Ma, dopo una settimana, si è licenziata. Non riusciva a reggere la differenza abissale tra il dietro le quinte di The Newsroom e il dietro le quinte di cui era protagonista lei. Dopo ore di 25enni che gestiscono risorse milionarie e scrivono la scaletta di programmi di punta, ragazzini con dodici mesi di esperienza contesi tra diversi show a suon di controfferte e addetti allo svuotamento cestini dalla carta straccia in grado di scrivere i dialoghi più sferzanti di un film di Woody Allen… Non voleva finire in una sala caffè a lamentarsi della mancanza di meritocrazia e a disapprovare se stessa: «Brrr, ho detto davvero meritocrazia, che mi sta succedendo?». E ha cambiato lavoro del tutto.

Ciò che, però, sfuggì alle colleghe che provarono a convincerla puntando su: «Beh, è la differenza tra l'Italia e gli Stati Uniti, non puoi lamentarti», è che una redazione tv, o un canale, come quelli raccontati in The Newsroom non esistono neanche in America. The Newsroom non è affatto realistica e, anzi, la sua grandezza, come in genere i dietro le quinte di Sorkin (Sports Night o Studio 60, miglior comedy di sempre, ripetono lo stesso schema), sta proprio in questa dimensione ideale. The Newsroom non esiste perché è l'idealizzazione di una redazione. Di più, è l'idea platonica di redazione. (Dal nostro punto di vista il fatto che sia in America è una doppia idealizzazione, poi). Per accettarlo tocca smentire la convenzione per cui il migliore dei mondi possibili è quello della filosofia classica, senza male e senza dolore, e accettare il principio dei film più ottimistici di fantascienza: cioè che la felicità sta nel leggero vantaggio del bene sul male in un mondo in cui i due sono sostanzialmente equilibrati. Il miglior programma di news possibile, perciò, non è quello in cui tutte le notizie sono belle, ma quello in cui le notizie brutte vengono raccontate nel modo migliore possibile e in cui ogni redattore o autore o produttore ha almeno due persone follemente innamorate di lui e lui è follemente innamorato di altre due a sua volta e qualcuno può dire seriamente al proprio marito senza essere preso a ceffoni che tradirlo è servito a dimostrare che sono destinati a stare assieme per l'eternità. E lui ci crede davvero.

Il network è spregevole, i cattivi dilagano ovunque, la gente fa schifo e ha gusti del cavolo («I'm going to single-handedly fix the Internet»), ma questo mix di Don Chisciotte e Prometeo può vincere la sua guerra. Sarà durissima, ma basta solo che decida di combatterla. Per creare un mondo ideale in cui ambientare la battaglia, alcuni inventano utopie in chissà quali altrove, altri ucronie, modificando un evento nel passato e raccontando come sarebbe andata se Hitler avesse avuto successo come pittore e non avesse mai scritto Mein Kampf: Sorkin fa di meglio, riscrive il passato. E non quello lontano, inventando un'età dell'oro alla fine del maccartismo o nello stracitato Watergate, Sorkin riscrive il passato prossimo. Le cose non sono andate proprio come le racconta The Newsroom, ma quando lo guardi le ricordi così. Si riscrive la storia e questa torna a essere la più alta forma di retorica (nel senso positivo del termine). Per un mese al pubblico è interessato solo a un morboso caso di cronaca? Nella ricostruzione di The Newsroom viene mostrato come sarebbe stato se i giornalisti avessero fatto bene il proprio lavoro e scopriamo, così, che il pubblico si sarebbe appassionato molto di più ai complessi meccanismi dei mutui subprime. Lo vediamo e finiamo per crederci, o quantomeno sperarci. Ah, se esistesse davvero un programma di news così, sì che lo guarderei e sarebbe bello informarsi!

Le accuse sono immediatamente quelle di essere fanfaroni e consolatori. Non a caso, The Newsroom è un bersaglio perfetto per l'hatewatch (anche Louis C.K. ha rivendicato di essere tra i ferventi hatewatchers di Sorkin) perché ha questa pretesa ormai considerata assurda di essere "educativo" – l'orrore, l'orrore –, di voler far riflettere gli spettatori – ah, ti prego, basta, fermati prima di dire servizio pubblico –, di essere edificante.

Ma a me che qualcuno riesca ancora a essere costruttivo – e in maniera attuale, non provando a rifilarti le glosse alla Costituzione italiana di Gustavo Zagrebelsky – nonostante milioni di persone scrollino le spalle all'unisono lasciando intendere che quella roba lì è morta, che se hai voglia di quell'intrattenimento lì prendi un libro, sembra ancora la cosa più valida possibile. Non perché le storie sulla cocaina siano più importanti dell'ippogrifo (anzi, sempre viva l'ippogrifo), ma perché non è questa la contrapposizione vera, bensì quella tra fuga e confronto col reale (magari uno ne scappa parlando di Bilderberg e ci resta parlando di 2189). The Newsroom è una serie che racconta il dovere, lo sforzo e la disciplina che la libertà comporta, e se qualcuno riesce a far credere che la disciplina non sia poi così costosa e possa perfino essere piacevole ed esaltante – e lo fa attraverso i Coldplay – beh, per me quel qualcuno riesce davvero nella cosa più complicata possibile.

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