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Questo articolo è stato pubblicato il 26 agosto 2013 alle ore 08:23.

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Quando guardavo Lost, seguendolo puntata dopo puntata al ritmo settimanale della programmazione americana, ero spesso preda di un interrogativo tanto ozioso quanto per me drammatico. L'esaltazione di cui ero preda, mentre mi arrovellavo sui numerosi quesiti apparentemente inspiegabili che affollavano la serie, quella sete di conoscenza che mi spingeva a passare le ore notturne a spulciare le, improbabili, soluzioni proposte dai fan nei forum dedicati, sarebbero esistiti anche se io avessi visto Lost tutto insieme, anni dopo la messa in onda dell'ultimo episodio?

Avrei resistito all'impulso di correre su Wikipedia per scoprire prima del tempo la soluzione di ogni mistero? E anche qualora avessi mostrato fortezza d'animo, la capacità di negarmi alla tentazione avrebbe nobilitato i miei sforzi o li avrebbe retrocessi a uno stupido fioretto, ben meno struggente di quella condizione di assoluta incertezza che mi tormentava e che mi faceva pensare che, per avere delle risposte immediate dagli sceneggiatori, avrei pagato tutto l'oro del mondo, avrei ucciso? Sentivo di trovarmi nella disposizione d'animo di Lessing che davanti a Dio sceglie la ricerca della verità al vero assoluto. Certi momenti Lost ai miei occhi cessava di essere un'opera e diventava una performance, legata all'irripetibile hic et nunc della prima visione, ciò che generava in me gli estremi contraddittori dell'amarezza per la natura effimera dell'oggetto della mia passione, ma anche una fiera coscienza della mia fortuna di spettatore in tempo reale. Altre volte, invece, mi rassicuravo, convincendomi del valore assoluto di Lost e dei suoi enigmi. Ma la mia volontà, che al tempo di Lost fu risparmiata, è messa alla prova da quando, circa tre anni fa, ho iniziato a guardare Game of Thrones.

Lo spazio occupato nel mio animo dai misteri dell'isola è adesso occupato dalla guerra dei Sette Regni di Westeros. E la mia avida curiosità è tentata non soltanto da Wikipedia e dai suoi succedanei specializzati (A Wiki of Ice and Fire), ma anche e soprattutto dalla serie di libri di George R. R. Martin da cui è tratta la serie tv. Eppure stavolta una consapevolezza mi difende dal rischio di spingermi con la lettura oltre la soglia raggiunta dal programma. Perché leggere i romanzi non soltanto soddisferebbe il masochistico desiderio di spoiler, ma provocherebbe in me un mutamento antropologico che distruggerebbe il piacere della visione futura. Mi trasformerebbe, da spettatore inconsapevole in lettore esperto.

È un fenomeno di cui ho avuto esperienza diretta quando mi sono ritrovato a preferire il film Watchmen, perché assolutamente fedele al fumetto, al ben più meritevole Batman Begins, colpevole, secondo il mio sentire, di non essersi attenuto al racconto di Frank Miller in Batman Year One. Ed è il notissimo fenomeno per cui, davanti all'entusiasmo per un perfetto adattamento audiovisivo, il lettore appassionato scrolla le spalle con sufficienza e ammonisce: «Sì vabbè, ma il libro...».

Ed è ciò che è puntualmente avvenuto quando è andata in onda la nona puntata della terza stagione di GoT, che ha messo in scena uno degli episodi più controversi dell'intera saga. I lettori non solo, sadici, pregustavano da tempo lo stupore affranto degli spettatori (ai loro occhi colpevoli di volontaria ignoranza), ma, nonostante la puntata fosse praticamente perfetta, hanno trovato il modo di criticarla con tutta la violenza di cui Internet è capace, non risparmiando improperi e ingiurie che riguardavano le percussioni dell'orchestra del matrimonio e i vestiti dei personaggi secondari. Certo che tale deprecabile atteggiamento non sia da imputarsi ai lettori, ma all'impossibilità costitutiva, per un fan, di farsi immune dal fiele, supercilioso e sciocco, dell'ipercriticismo, rinuncio alla lettura dei libri non ancora trasposti, accontentandomi di aggiornare il lettore che è in me via via che la serie va avanti. Profondamente convinto che la trasposizione televisiva di GoT sia uno dei più alti vertici mai raggiunti dall'epica occidentale.

Di tutti i generi il fantasy (assieme alla fantascienza) è quello che, nella sua evidente derivazione mitologica, meglio riesce a ricreare un universo: mappe, ballate, dinastie, leggi fisiche. E per quanto io abbia amato la trasposizione di Peter Jackson del Signore degli Anelli è difficile negare che, in un confronto, GoT esca trionfatore, migliore non solo nell'estensione (che permette di lasciar crescere la storia in base alle proprie esigenze naturali, senza curarsi troppo di introdurre trame ad hoc nei singoli episodi) ma anche nell'intensione (la possibilità di immettere molti più dettagli e rendere più complessi i personaggi). La serie, rispetto al film, si mostra correlato formale più adatto e disponibile all'aspirazione di creare un grande universo narrativo. O meglio, se il film può essere un ottimo analogo del romanzo, specie se breve (restando, per una volta, nell'ambito italiano due dei migliori adattamenti cinematografici degli ultimi anni derivano da romanzi molto brevi di Niccolò Ammaniti, Io non ho paura e Io e te), la serie è perfetta per le saghe, che soffrono se costrette nelle tre ore di un lungometraggio.

Così, come tutte le grandi opere anche GoT offre il fianco a interpretazioni metaforiche, e come tutte le opere molto grandi, a interpretazioni contrastanti [Arrivato a questo punto mi rendo conto che quest'atteggiamento di dire-non-dire ha raggiunto il suo limite e devo abbandonarlo. Per cui se volete proprio leggere le mie riflessioni su GoT dovete sapere che, di qui in avanti, troverete qualche spoiler]. Si può allora interpretare GoT marxianamente, come un elogio del dinamismo sociale dell'ancien régime. In quest'ottica gli eroi sono i self-made-men Dito Corto e Varys, e si può apprezzare il giusto valore tributato dai Lannister ai meccanismi economici. Mentre la deprecabile incapacità degli Stark di mentire è da addebitarsi a un ottuso complesso di superiorità, simile a quello che portò Montezuma a fidarsi di Cortés e portare alla rovina il suo popolo (ci insegna Cvetan Todorov). Oppure si può aderire alla teoria di segno opposto che vuole GoT un ammonimento fatalistico e conservatore che istruisce all'accettazione e, hobbesianamente, ammonisce a non ribellarsi all'autorità scelta da Dio. La guerra contro il Re Folle non ha liberato i Regni da un tiranno ma non ha portato altro che distruzione e morte colpendo con particolare violenza proprio le casate ribelli. E, con ironia poetica, alla fine della saga sul trono di spade siederà nuovamente un membro di casa Targaryen.

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