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Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2013 alle ore 08:35.
I falsi letterari hanno spesso cambiato la storia. Per secoli, prima che Lorenzo Valla scoprisse l'inganno, la Donazione di Costantino fu usata per giustificare il potere temporale della Chiesa. I Canti di Ossian generarono il mito del bardo gaelico (l'Omero del Nord) e il nazionalismo scozzese: ma erano apocrifi ben forgiati dal paffuto James Macpherson. E poi ci furono i Diari di Hitler, i Protocolli dei Savi di Sion e le 28 antiche canzoni siciliane, composte in realtà dall'insospettabile Luigi Capuana. Per non dire dei falsi virtuali come il carteggio tra Voltaire e François-Marie Arouet, su cui un allievo di Umberto Eco voleva scrivere la tesi.
Ora la storia dei falsi letterari è a una svolta: è stato infatti ritrovato un appunto del maggiore autore di apocrifi, lo ps-D.L. Questo breve scritto non permette, purtroppo, di capire chi si celi dietro quello pseudonimo, ma ci offre una straordinaria prospettiva sul suo modo di lavorare. Ne pubblichiamo alcuni stralci.
«Per comporre un buon apocrifo bisogna innanzi tutto dotarsi di uno pseudonimo credibile. Per esempio, volendo fingere il ritrovamento di un poema epico duecentesco è preferibile attribuirlo a Ubaldo da Spoleto, non a Mario Rossi. Nella scrittura bisogna poi adottare uno stile mimetico: e se, come nel mio caso, si vuole comporre un trattato filosofico apocrifo, è bene che lo stile sia criptico, così gli interpreti si perdono nelle interpretazioni e non fanno troppa filologia (che naturalmente è rischiosa, perché potrebbero capire l'inganno). Infine bisogna dare all'opera un titolo molto evocativo: "Atti del XXV Congresso di gastroenterologia", per esempio, non funzionerebbe troppo bene.
Ecco come le cose sono andate nel mio caso. Ho subito pensato allo pseudonimo ps-D.L., che è perfetto: suggerisce infatti l'idea che il falso autore fosse un giudice dell'Areopago. Naturalmente nessun lettore ricorda con precisione cosa fosse l'Areopago, ma il nome mette subito in soggezione e questo è ottimo. Poi ho riflettuto a lungo su come intitolare il mio trattato apocrifo finché, sfogliando dal barbiere una copia di "Cosmopolitan", ho concepito il titolo perfetto: "Corpus Dionisianum". Mi serviva da ultimo l'argomento da trattare. Pensa che ti ripensa, mi è venuto in mente il ruolo del linguaggio rispetto a Dio e all'Io (in realtà è venuto in mente a mio cugino, ma lui preferisce non figurare in pubblico perché è un elettrauto molto importante).
Sono poi passato alla fase di scrittura, buttando giù frasi enigmatiche come: "La verità è l'errore che fugge nell'inganno ed è raggiunto dal fraintendimento" e "Se io mi arrangiassi in modo da essere molto facilmente compreso, talché abbiate la certezza che ci siete, ebbene, proprio in virtù delle mie premesse riguardo il discorso interumano, il malinteso sarebbe irrimediabile". Mi sono quindi concentrato sui contenuti filosofici. La questione di Dio l'ho risolta in quattro e quattr'otto, dicendo che Dio è apofatico ovvero sfugge a ogni possibile definizione: di Lui, dunque, si può dire solo ciò che non è. Questa parte teologica mi ha molto soddisfatto; ma siccome era un po' corta (tre righe), mi sono molto impegnato con quella riguardante l'Io. Ho dunque scritto che l'inconscio è strutturato come un linguaggio, ho citato a man bassa Jakobson e Saussure, che fa sempre bene, e poi ho sostenuto con forza il ritorno a Freud.
Subito dopo la pubblicazione, Heidegger ha attaccato il mio ps-D.L. con le parole: "Questo psichiatra ha bisogno di uno psichiatra". C'è cascato anche lui: ho vinto!».
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