Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2013 alle ore 08:30.

My24

L'atteggiamento di riprovazione e quello di accettazione delle passioni, il vade retro! e l'andare loro incontro, continuano ancor oggi a coesistere nella nostra cultura. Eppure vi è nella storia del pensiero filosofico (per non parlare della letteratura o della musica) una linea che difende e giustifica le passioni come non ostili al pensiero e addirittura come provviste di una particolare douceur. Già Cartesio, ad esempio, sostiene che, «esaminandole, le ho trovate quasi tutte buone, e tanto utili alla vita, che la nostra anima non avrebbe motivo di voler restare un sol momento unita al corpo se non potesse provarle». Esse svolgono la funzione di disporre «l'anima a volere ciò che la natura ci indica come utile». Se si fosse capaci di farne un buon uso e di rendersene padroni, si on employait assez d'industrie à les dresser, esse porterebbero solo dei vantaggi e permetterebbero «persino alle anime più deboli» di guidare la propria esistenza. Il dressage, l'addestramento, è capace di – in linguaggio platonico – di rendere obbediente anche il «cavallo nero» delle passioni indocili. La sua malvagità dipende, infatti, dalla sua infelicità: se, come nella storia o leggenda di Androclo e il leone, raccontata da Aulo Gellio, gli si estraesse la spina che lo tormenta, anche il cavallo nero diventerebbe buono. Nella voce Passion dell'Encyclopédie francese la riabilitazione è completa e programmatica: «le passioni, comprese quelle che ci inquietano e ci tormentano di più, posseggono una sorta di dolcezza che le giustifica a se stesse ... Se si possono trovare dolci la tristezza, l'odio, la vendetta, quale passione sarà esente da dolcezza?».
Umberto Curi prolunga in maniera originale questa tendenza nel rivendicare il carattere attivo della passione, che non si riduce affatto a un semplice patire, a una rassegnata sopportazione. Essa è anche attiva, esprime «una tensione particolarmente intensa, al punto di essere spesso considerata paradigmatica di un impulso caloroso e perfino travolgente». Tale fervore agisce perfino al livello più alto della filosofia. Per Platone, senza passione l'uomo non si eleverebbe sopra se stesso, non scalerebbe le vette del pensiero. Il filosofo non è, di conseguenza, esente dal pathos. È anzi profondamente segnato dal thaumazein, dove il sostantivo thauma non indica soltanto la meraviglia, ma anche «ciò che incute paura, che suscita sgomento». Sia «per Platone che per Aristotele la filosofia – e dunque la forma di esercizio intellettuale più alta, compiuta e degna dell'uomo – è figlia di un pathos. È figlia in particolare del thaumazein, termine difficile da tradurre, ma certamente irriducibile alla mera negatività della sofferenza».
Peraltro, la separazione tra logos e mythos non è in Platone così netta come si potrebbe evincere da alcune sue dichiarazioni. Allorché Protagora, nell'omonimo dialogo, alla richiesta di spiegare cosa sia la tecnica politica, domanda a Socrate «preferite che lo dimostri mediante un racconto, oppure attraverso un ragionamento?», pone un problema che Platone non può aggirare: quello della compatibilità tra argomentazione logica e racconto di un mythos. Lo stesso Platone, nei luoghi-chiave del suo pensiero si serve, infatti, del mythos, che ha per Protagora l'ulteriore vantaggio di essere chariesteron, più piacevole del ragionamento logico, perché la charis include «godimento e bellezza, grazia e diletto, rispetto e gioia, benevolenza e merito».
Forte della sua solida conoscenza del pensiero greco e, per certi aspetti, cristiano, Umberto Curi dà in questo libro il meglio di sé nelle magistrali analisi di precise declinazioni del concetto di passione, in particolare nel trattare del mito di Don Giovanni o della Passione di Cristo nel Getsemani e nel Golgota.
La "passione dominante" di Don Giovanni non consiste nel collezionare conquiste amorose, secondo il famoso catalogo di Leporello, che Da Ponte inserisce nel libretto del mozartiano Don Giovanni. Da Paolo Zehnter (il gesuita che, quindici anni prima del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, scrive nel 1615 un dramma intitolato Storia del conte Leonzio che, corrotto da Machiavelli, ebbe una fine terribile) fino a Molière o a Corneille, Don Giovanni non rappresenta lo stereotipo del seduttore, quanto quello del miscredente, del negatore di Dio e della trascendenza. Mozart ha avuto il merito di intervenire più volte su Da Ponte per introdurre nel libretto una carica di maggiore problematicità, evitando così una versione banale e semplificata del mito.
La passione di Gesù viene da Curi descritta con forza nel mostrare come il Deus patibilis critiano, in netta opposizione all'apatheia del dio aristotelico, sia portatore di un paradossale e scandaloso «dolore che guarisce, un supplizio che riscatta... Non vi è Passione, se non nella tensione ineliminabile fra queste due insopprimibili dimensioni del dolore – fra l'abisso del patimento e la luce del riscatto». Questa passione divina non può essere espressa né dalla parola, né dalla musica, né dall'immagine. Curi che molto ha riflettuto sul cinema – si vedano i suoi volumi Un filosofo al cinema, L'immagine-pensiero e La verità del cinema – porta a testimonianza della sua tesi il Pasolini de La ricotta, che precede di poco la Passione secondo Matteo, dove non viene rappresentata la morte di Dio, «ma solo quella di un poveraccio ammazzato dalla propria fame».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Umberto Curi, Passione, Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 230, € 13,00

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi