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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2013 alle ore 17:52.

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Come convivo con il Parkinson scoprendo la gioia d'essere al mondo

Metti una giovane donna, baciata dalla sorte. Una tranquilla esistenza borghese ricca di agi, con i genitori dai "modi impeccabili" sintesi di austera tradizione e modernità, alimentata dal flusso benefico di una cultura d'impronta cattolica scevra da pregiudizi. E per di più un'artista e un'atleta, con il corpo modellato dall'austera disciplina della danza. Una ballerina del corpo della Scala, che ha frequentato la scuola del Bolshoi moscovita e che rammenta l'emozione del suo muto incontro in un ascensore scaligero con il mito, Margot Fonteyn: «Io, piccolissima artista, insignificante pulce tra tanti giganti» , scrive con malcelata civetteria. Eccolo «il tempo incantato prima che tutto avesse inizio»: par di vederla con Well, il cocker spaniel nella grande casa sul lago Maggiore, al colmo delle felicità.

Poi accade che una sera a cena, arrotolando meccanicamente gli spaghetti, s'accorga che la mano s'inceppa, qualcosa non va. È il 1986, Lucilla Bossi ha 36 anni, un marito che la lascerà di lì a poco, dolore nel dolore, e il figlio Fabrizio che adora. Una spallata e la sensazione è cancellata. Ma quel black out tra testa e corpo, all'apparenza insignificante, si ripete mese dopo mese, anno dopo anno con maggior frequenza. Dopo l'inutile pellegrinaggio negli studi di ortopedici specializzati, approda nelle sale di un neurologo che emette la diagnosi in pochi minuti: Parkinson idiopatico giovanile. Gli anni sono 39, una vita davanti con buona parte di relativa giovinezza.

«Ho reagito come un animale selvatico preso in trappola - confessa Lucilla - e in seguito agli effetti collaterali di un primo tentativo di cura che mi fece stare malissimo, rifiutati qualunque terapia». Troppo grande il divario tra il prima e il dopo, tra la creatura piena di vita e l'invalida che sembrava condannata a diventare.

Una cupa disperazione che sembra non aver fine, finché un giorno il plaid entro il quale si arrotola sul divano di casa, nascondendosi al mondo, viene gettato. Lucilla trova nella propria profonda fede cattolica un punto di riferimento. Nulla a che vedere tuttavia con l'attesa di un miracolo, piuttosto con la riscoperta della propria autocoscienza, della realtà invisibile che l'aiuta ad andare incontro alla malattia. È il «conosci te stesso» scritto sul tempio dell'oracolo di Delfi che si materializza, sono le esortazioni che via via hanno dato linfa nei secoli all'agire dell'uomo, da Socrate, a Platone, a Sant'Agostino sino a Kant e che tanto permea oggi, come allora, le culture orientali. Non a caso l'autrice fa riferimento a un significativo episodio accaduto durante un viaggio in India.

Lasciamo al lettore il piacere di scoprire ciò che succede alla "nuova" Lucilla Bossi in questi trent'anni. Una scoperta resa facile e avvincente da una scrittura fluida e da un racconto che mai supera la soglia dell'autocommiserazione, anche se con un tale fardello sulle spalle potrebbe trovare corpose giustificazioni.

La vera forza di Lucilla Bossi sta nell'aver rifiutato di trasformare una malattia cronica neurodegenerativa e progressivamente invalidante nella monade entro la quale rinchiudersi: «Uno dei fattori che mi ha spinto a scrivere è l'universalmente diffusa e deleteria metafora del Parkinson quale nemico e della terapia come guerra». Un'eroica battaglia che finisce tuttavia per far perdere al paziente la capacità di interessarsi al mondo, avendo nella malattia la ragione e l'interesse principale della vita.

L'autrice ci consegna un diario di vita quotidiana che ha la forza di guardare al male, senza negarlo, ma con occhi nuovi e senza prendere per oro colato «qualunque baggianata» le proponessero sul Parkinson, sin dal giorno in cui dà del matto al medico che le chiede se fa fatica a vestirsi e anche quando il suo armonico corpo d'atleta si riduce a «39 chili di pelle e ossa». Una vita intensa, fitta di viaggi e d'esperienze che mai ha conosciuto a priori la rinuncia per via del Male: si fa il possibile e, se occorre, si va oltre. Oltre, per esempio, le proprie inibizioni, oltre i pregiudizi della gente che osserva i tuoi movimenti scomposti. Prima vorresti scomparire, ma poi capisci che è tempo d'essere te stessa.

Giorni lieti e tristi, non solo per via della malattia, di tenacia, di speranza, di amori, di delusioni e anche il giorno perfetto dei due interventi del 16 giugno 1998 che si riassumono in un acronimo di tre lettere: DBS ovvero Deep Brain Stimulation, stimolazione cerebrale profonda, che consente a Lucilla di essere la donna attiva che è oggi, alla guida, in qualità di presidente, della Confederazione Parkinson Italia: «Ogni giorno da normale è per me un giorno regalato e nessuno è mai banale perché so, per averla persa e ricevuta una seconda volta, che dono immenso è la vita».

Lucilla Bossi
Ogni giorno vale una vita
pagg. 156, 16 euro
Mondadori editore

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