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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2013 alle ore 19:23.

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Mostra del cinema di Venezia: Emma Dante divide. Conquista tutti, invece, «Tracks»

Dopo la sbornia «Gravity», tanto cinema e in 3D, si temeva di vivere, al Lido, una giornata interlocutoria. Aiutati anche da una programmazione intelligente che lasciava al primo italiano in gara il dovuto spazio. Un'opera d'esordio di una delle più coraggiose e talentuose artiste del nostro teatro, Emma Dante, una che ha saputo riscrivere alcune regole del palco e altre forzarle per portarlo nell'età moderna, anzi per renderlo mezzo di comunicazione contemporaneo ed espressione d'arte sperimentale e nuova. Per il suo primo passo al cinema ha trovato produttori validi e motivati (tra gli altri Wildside, Vivo Film, RaiCinema) e appoggi in Francia e Svizzera. Si è ritagliata il ruolo di coprotagonista e accanto a sé, anche fisicamente, ha messo Alba Rohrwacher.

Gli ingredienti per fare qualcosa di eccellente, insomma, c'erano tutti, eppure quando si esce da «Via Castellana Bandiera», si ha l'impressione di aver visto un'idea, neanche troppo originale (da Garrone a Ciprì sono in tanti ad averci mostrato i più o meno buoni selvaggi del nostro sud e delle nostre periferie) e poco altro. Quel lasagne western tra Elena Cotta - che da sola, con un'interpretazione silenziosa e potentissima, tiene in piedi un lungometraggio esilissimo - e la stessa Emma Dante, a bordo di due macchine in una strada che vorrebbe essere un mondo e invece è solo un cortile troppo piccolo in cui ci sono le nostre miserie, non sa emozionarti, portarti in quello che vorrebbe essere, forse, un racconto metaforico del nostro paese.

Un'autrice che normalmente ti scuote, ti fa entusiasmare o arrabbiare, una che sceglie angoli visuali "sbagliati", ma che non ti lascia mai indifferente, qui invece ci mostra una storia che non sembra trovare una sua identità, che sceglie i sentieri più facili e disegna su corpi sgraziati e dialoghi piuttosto scontati un'umanità che meritava, invece, il suo occhio migliore.

Di fortissimo impatto è invece «Tracks» di John Curran. Anch'esso in concorso, sembra di fatto il lato oscuro, anzi assolato, di Gravity. Lì Sandra Bullock affronta l'universo, qui Mia Wasikowska il deserto: entrambe sono sole, alla ricerca e al recupero di sé, per tutte e due la sopravvivenza in condizioni impossibili rappresenta il (ri)trovare una consapevolezza nuova della propria vita, della propria indipendenza, della voglia di farcela, grazie alla loro fragilità, che non esclude, ma anzi completa, la loro grande forza.

Curran segue la sua attrice, i suoi cammelli - questo «Into the wild» parte dall'emulazione di una figlia verso il padre esploratore - e non ha paura di spazi e tempi dilatati, di un ritmo ripetitivo e di un'attrice che non ha una forte espressività. Ha per le mani le storie di una donna coraggiosa e di una ragazza che la sua linea d'ombra (non solo anagrafica, ma anche di genere e di classe) la vuole sorpassare superando se stessa, arrivando al fondo del proprio essere con uno sforzo, anche fisico, immane, per comprendere di più il mondo e se stessa. I movimenti di macchina essenziali e puntuali, la musica, gli animali, tutti sempre presenti, riempiono un film che guarda oltre, rimanendo nello stesso tempo ben ancorato a terra. E anche qui Adam Driver, come Clooney in Gravity, è solo un maschio "utile", un mezzo per la donna per crescere, una presenza funzionale come spesso capita, invece, alle attrici.

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