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Questo articolo è stato pubblicato il 13 settembre 2013 alle ore 14:56.

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Emoziona l'omaggio di Scola a Fellini. Gondry convince a metà - Foto

Un grande maestro ne racconta un altro: «Che strano chiamarsi Federico» è il toccante omaggio di Ettore Scola a Federico Fellini, in arrivo questo weekend nelle nostre sale dopo la presentazione, fuori concorso, all'ultima Mostra di Venezia.
In occasione del ventennale della morte del regista riminese, Scola descrive il suo rapporto con Fellini, dalle comuni frequentazioni giovanili (la redazione del giornale satirico "Marc'Aurelio") fino al consolidarsi di una grande amicizia.

Più che un semplice documentario, «Che strano chiamarsi Federico» è un originale cortocircuito di ricordi e sensazioni, dove Scola mantiene la posizione di un ammiratore devoto, che ha avuto il privilegio di conoscere una delle figure più significative del novecento italiano.

Se la pellicola, dopo alcuni tentennamenti iniziali, diverte e convince per tutta la sua durata, una menzione speciale va all'emozionante sequenza finale – un ultimo e definitivo carosello felliniano – in cui si fatica non poco a trattenere le lacrime.
Altro film particolarmente atteso in uscita questa settimana è «Mood Indigo», ultima follia del talentuoso Michel Gondry. Tratto dal romanzo «L'écume des jours» di Boris Vian del 1947, il film racconta la relazione tra Colin (Romain Duris), un ricco parigino che si dedica a curiose invenzioni, e Chloe (Audrey Tautou), una ragazza di cui l'uomo s'innamora perdutamente. I due si sposano ma durante la luna di miele Chloe rimane vittima di una rara e bizzarra malattia.

Dopo alcune pellicole poco personali («The Green Hornet» del 2011 e «The We and the I» del 2012), il regista francese è tornato allo stile, artigianale e surreale, de «L'arte del sogno» (2006), uno dei suoi lavori più riusciti in assoluto.

Nel caso di «Mood Indigo», però, la messinscena appare poco spontanea ed eccessivamente studiata a tavolino per poter emozionare come avrebbe voluto.
Nonostante siano molte le scelte azzeccate (l'uso dei colori in particolare) e diverse le sequenze toccanti (il finale che omaggia «L'atalante» di Jean Vigo), Gondry cade spesso nella maniera, tentando vanamente di ritrovare quella creatività del passato che oggi sembra soltanto un lontano ricordo.

Decisamente più piatto e meno stravagante è «Una fragile armonia», esordio nel cinema di finzione di Yaron Zilberman. La trama ruota attorno a un celebre quartetto d'archi che, alla vigilia di una nuova stagione di concerti, rischia di perdere il proprio leader, colpito dal Parkinson e deciso a ritirarsi.

Classico film di sceneggiatura e di interpreti, «Una fragile armonia» è un prodotto dallo scarso valore cinematografico, che punta tutto sulle battute pronunciate dai vari attori in scena. Zilberman non riesce ad approfondire le dinamiche psicologiche interne al quartetto, prima e dopo la tragica notizia, e quel che ne risulta è una pellicola scolastica e, paradossalmente, priva del giusto ritmo. A salvarla, almeno in parte, un cast in buona forma, da Philip Seymour Hoffman a Christopher Walken, passando per Catherine Keener.

Infine, da segnalare l'uscita di «The Spirit of ‘45», nuovo documentario di Ken Loach incentrato sul secondo dopoguerra britannico.
Soffermandosi sui cambiamenti affrontati dal suo paese, Loach mostra come i risultati del governo laburista del 1945 abbiano gettato le basi per la costruzione del futuro della Gran Bretagna, mettendo il collasso economico alle spalle, grazie alle politiche di espansione industriale, di affermazione della proprietà pubblica e del welfare.
Esattamente come nelle sue opere di finzione, Loach lavora con grande rigore e passione, dimostrando ancora una volta come il suo cinema sia un mezzo per portare avanti le sue convinzioni, sociali e politiche. Alternando interviste recenti (a persone che hanno visto finire la seconda guerra mondiale) a materiali di repertorio dell'epoca, il regista costruisce un quadro storico che racconta contraddizioni e cambiamenti del Regno Unito dagli anni '40 in avanti.

La struttura del documentario è classica e il fine è didattico, ma, tra le pieghe della narrazione, viene fuori il tocco, ironico e serissimo al tempo stesso, di un autore che, arrivato a 76 anni, ha ancora moltissimo da dire.

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