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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2013 alle ore 08:48.
Lector in fabula: appena pubblicato – eravamo nel 1979 – era stato uno dei grandi successi critici di Umberto Eco, alle soglie della sua stagione letteraria attiva e della sua fama planetaria col Nome della Rosa. Fu anche il mio incontro sulla pagina con lui, in preparazione della successiva amicizia patrocinata dalla sua attrazione per il tesoro bibliotecario che avrei poi custodito all'Ambrosiana di Milano. Ebbene, vedo oggi quel testo occhieggiare in molti capitoli di un suggestivo volume scritto a quattro mani da due importanti esegeti biblici contemporanei: il cattolico André Wénin, gesuita docente a Lovanio, e il protestante Daniel Marguerat dell'Università di Losanna. Comune è il loro approccio alle Scritture, quello appunto sollecitato da Eco, ossia l'analisi narrativa che, come è noto, alla figura capitale dell'Autore associa «la cooperazione interpretativa del Lettore».
Per usare la vivace metafora di Eco, «il testo è un meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal destinatario», il Lettore appunto. In realtà, è vero pure il contrario – come sottolineano i due esegeti – perché anche il Lettore ha bisogno dell'Autore e del suo testo per esistere. Altrettanto significativa è la metafora di un'altra grande figura del pensiero del Novecento, Paul Ricoeur (del quale quest'anno celebriamo il centenario della nascita): «Il testo, orfano del padre, l'autore, diventa il figlio adottivo della comunità dei lettori». L'attenzione a questo dialogo interattivo tra i due protagonisti di un'opera letteraria è alla base della contemporanea narratologia, subentrata alle prime intuizioni dei formalisti russi alla Vladimir Propp, ai modelli strutturalisti di Greimas, Bremond, Todorov e Barthes e al progetto strettamente semiotico di Genette.
Alla base di questa nuova impostazione narratologica detta del «narrative criticism» c'è un saggio apparso l'anno prima di quello di Eco, ossia Story and Discourse di Seymour Chatman, tradotto in italiano da Pratiche (Storia e discorso, Milano 1998, II ed.). Semplificando, potremmo riassumerne il succo tematico così: la story è l'evento narrato, il contenuto informativo (ad esempio, un incidente d'auto con vittima); il discourse è il montaggio narrativo della storia, elaborata nel racconto o nel film da spettatori diversi che imprimono all'evento la loro lettura, spesso tutt'altro che identica. Pensiamo, allora, per stare a un celebre soggetto biblico, ai tre Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca): essi «presentano tre narrazioni della medesima storia raccontata, quindi tre diverse costruzioni del racconto della stessa storia». Ma la cosa non finisce qui perché, a catena, questi tre autori-lettori dell'unico evento provocano e generano i lettori successivi del loro racconto.
L'esempio evangelico proposto fa capire perché i biblisti si siano da qualche tempo dedicati con interesse all'applicazione del metodo narratologico (il primo è stato il critico letterario "laico" di Berkeley, Robert Alter, col suo bel saggio del 1981 The Art of Biblical Narrative, tradotto in italiano nel 1990 dalla Queriniana di Brescia). Infatti, il 60% del testo biblico è costituito da racconti, alcuni dei quali entrati nell'appannaggio culturale universale. Ebbene, Marguerat e Wénin iniziano il loro percorso proprio dai Vangeli, opere certamente non solo informative (cioè asettiche relazioni di una story, dato e non concesso che questa neutralità sia possibile), ma anche performative e, quindi, consapevoli di generare una reazione interpretativa, un discourse, nel lettore. L'analisi che i due esegeti conducono è molto coinvolgente e significativa.
Marco – col suo Gesù che si sottrae costantemente a una piena identificazione, rivelandosi inafferrabile, lasciando alla fine la sua identità aperta a diverse classificazioni – spiazza il suo lettore, paradossalmente esiliandolo da ogni precipitosa confessione cristologica: «Io so chi tu sei: il Santo di Dio», infatti, lo dice nientemeno che Satana e Cristo lo esorcizza imponendogli il silenzio! «Il lettore costruito dal Vangelo di Marco – scrivono i due studiosi – è un lettore scosso, sopraffatto da un sovrappiù di sapere... che è l'inimmaginabile novità di un Dio che si dà a vedere nell'itinerario mortale dell'uomo di Nazaret». L'esame prosegue con Matteo e col suo «racconto messo in discorsi» che presuppone un lettore «costruito», capace di comprendere, edificato dal racconto che lo illumina, cancellando gli spazi di oscurità lasciati invece in Marco.
Un lettore «iniziato» è, invece, quello di Giovanni, a causa del linguaggio simbolico adottato dall'evangelista, che implica, perciò, più registri da catturare e che vede in agguato anche il malinteso, sferzato dalla cosiddetta «ironia giovannea». Infine, ecco il lettore di Luca (e degli Atti degli Apostoli) che viene spinto a diventare interprete della storia narrata: curiosa, ad esempio, è la molteplice rilettura offerta dello stesso evento, come nel caso della conversione di san Paolo, narrata ben tre volte negli Atti (capitoli 9, 22, 26).
È, questo, solo un esempio allusivo del l'efficacia dell'approccio narratologico che, però, Marguerat e Wénin propongono nelle sue complesse articolazioni metodologiche attraverso un'eloquente sequenza «sperimentale» fatta dello scavo di una decina di testi biblici. Essi permettono di gettare luce su tutte le componenti narrative: dalla trama alla temporalità, dalla ripetizione al punto di vista, dalla regia alla costruzione del racconto, dall'intertestualità fino alla fiction che si incastona nel racconto dell'evento (si veda la deliziosa parabola narrata dal profeta Natan a Davide in 2 Samuele 12,1-7).