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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2013 alle ore 08:51.

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Vorrei segnalare una piccola proposta, Eco, di Vincenzo Schino – qualcosa meno di un autentico spettacolo, un'installazione, una performance –, che ho visto tempo fa al Crt di Milano ed è stata presentata quest'estate in vari festival, ultimo dei quali Short Theatre, nelle scorse sere a Roma: vale la pena di tornarvi, anche in ritardo, perché mi sembra che non abbia avuto – al di là della sua costruzione scarna e della breve durata – l'attenzione che meritava.
Di Schino conoscevo quello che finora è stato il suo lavoro più noto, Sonno, che non mi aveva del tutto convinto per via di qualche eccessivo omaggio a suggestioni della Raffaello Sanzio. Poi è venuto l'interessante "studio" su Amleto presentato al festival Tfaddal del Teatro Franco Parenti, e ora questa creazione struggente e raffinata, che unisce una sottile grazia poetica a una certa dose di virtuosismo tecnico.
L'azione si sviluppa in un ambiente in penombra, diviso in due spazi fra i quali il pubblico è libero di spostarsi: da un lato c'è una sorta di bacino circolare che spunta dal pavimento, come il bordo di un pozzo, in cui colano dall'alto gocce d'acqua: nell'incresparsi della superficie liquida appaiono immagini video di volti umani. Sono volti normali, senza nulla di sinistro, ma evocano irresistibilmente una dimensione di memoria, un che di nostalgico, come presenze spettrali che affiorano dal fondo dell'anima. Dall'altro lato c'è un cubicolo di legno fatto di vecchie porte sconnesse o pezzi di armadi malamente inchiodati. Al di sopra si libra una specie di marionetta scheletrica, incorporea, un impalpabile ectoplasma di metallo leggerissimo, dalla forma antropomorfa ma disposto in posizione vagamente natatoria, a metà tra una misteriosa creatura marina e un fantasma stilizzato del Bauhaus. Le sue aeree evoluzioni sono guidate da fili che pendono dal soffitto: e questi, sorprendentemente, sono collegati agli arti – e qui sta l'aspetto virtuosistico – di una bravissima danzatrice, Marta Bichisao, che fa muovere la figura agendo da sdraiata, nel cubicolo sottostante, quasi fosse una sua emanazione, producendosi in una singolare coreografia immobile che può essere solo spiata dai pertugi fra le assi.
Non c'è, ovviamente, alcuna trama narrativa, c'è soltanto quell'atmosfera onirica, sospesa, quella lieve orditura visionaria: eppure è difficile assistere a un'esperienza teatrale capace di parlare in modo così lieve, così indiretto ma insieme così pregnante della morte, del rimpianto, del labile enigma dell'identità, di ciò che resta di noi dopo il nostro passaggio.
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