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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2013 alle ore 08:46.

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Era l'estate del 1967 quando il poeta Paul Celan andò a trovare il filosofo Martin Heidegger nella sua malga di Todtnauberg, nella Foresta Nera. L'ansia dei preparativi di questo incontro eccezionale si tramutò per Celan in muta delusione, perché non vennero affrontante dal filosofo quelle "grandi questioni" – il nazionalsocialismo tedesco di cui Heidegger era stato grande sostenitore – che premevano tanto al poeta, il quale era sì vorace lettore delle opere heideggeriane, ma anche e soprattutto il reduce dal campo di concentramento e l'orfano dell'amatissima madre fucilata a Michajlovka. Per l'ebreo Antschel - nome dal cui anagramma egli trasse poi il cognome che lo rese celebre (Antschel-Ancel-Celan) – il linguaggio non è la casa dell'Essere. Al contrario, il linguaggio abita l'esistenza individuale delle persone, che vivendo lo utilizzano e lo rendono sempre transeunte e mai uguale a se stesso. La poetica di Celan, dunque, consiste tutta in questa concezione tragica del linguaggio che, all'interno del verso, viene completamente denudato del suo senso comune e diviene oscuro, finendo con l'assumere una dimensione quasi materiale, come quella di una pietra monumentale grezza e priva di alcuna scritta.
Massimo Baldi, nel saggio Paul Celan. Una monografia filosofica, rilegge l'intera vicenda biografica e poetica dell'autore bucovino morto suicida nel 1970, portando alla luce quell'essenza così intimamente filosofica della sua opera, che ha stimolato la riflessione di pensatori come Adorno, Blanchot, Derrida, Gadamer, Szondi, Lévinas. Baldi affronta il pensiero celaniano secondo una prospettiva filosofica concentrandosi su alcune poesie-chiave, e lo fa assumendo anche una necessaria prospettiva filologica che da sola non basterebbe a penetrare il mistero di una creatività così ardimentosa. Nel celeberrimo poema Tenebrae, ispirato alle Lamentazioni di Geremia musicate da Couperin nel 1714, le parole, gettate nel verso come pietre grondanti sangue, in qualsiasi modo le si interpreti, testimoniano lo Sterminio, che è sempre sullo sfondo della parola celaniana. Una parola come vergieen, che in tedesco significa "versare sangue", un verbo che può essere predicato sia da chi viene ferito sia da chi ferisce, assume un senso tragico assoluto nei versi: «Noi andammo sghembi / andammo a inchinarci / sul trogolo e cratere/ (...) Noi andammo all'abbeveratoio, Signore. / Era sangue era / ciò che tu hai versato, Signore / Splendeva». Il sangue versato dall'innocente Cristo viene bevuto dalle vittime dell'Olocausto che si rispecchiano nella figura dominante della religione cristiana, la stessa cui appartenevano i nazisti. Sembra di vedere il dipinto di Chagall Crocifissione bianca (1939), dove alle spalle di un Cristo crocefisso con indosso i paramenti ebraici, appaiono scene di persecuzioni e pogrom. La lingua utilizzata da Celan, il tedesco corrente, è la stessa dei suoi aguzzini, e la tradizione letteraria cui fa costante riferimento è la medesima dei suoi aguzzini – si sente l'eco, in un punto del poema, dell'Inno alla gioia di Schiller: ma lingua e cultura tedesche vengono ironicamente e criticamente capovolte, fino a perdere il loro valore d'uso. Si tratta di una strategia finalizzata a rendere il testo un luogo in cui nel baluginare di una sola immagine – come direbbe Benjamin – la Storia viene riletta, fatta rivivere, nuovamente testimoniata in tutto il suo dolore. Compito del poeta, dell'artista, è proprio questo: fare di nuovo la Storia, smentendo le narrazioni storiche imposte dall'alto, quelle smemorate e menzognere. Il poeta non è un versificatore sapiente, bensì un filosofo. Egli deve indicare con la mano e risvegliare la riflessione e la memoria anche di chi dorme e non vuole ascoltare: «Io aperto fui / Udibile, / Io v'incalzavo col dito / Il vostro respiro obbediva / Voi però dormivate».
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Massimo Baldi, Paul Celan. Una monografia filosofica, Carocci editore, Roma, pagg. 216, € 23,00

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