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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2013 alle ore 08:53.

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È Maurizio Porro a spiattellare il segreto dell'ultima delle dive di palcoscenico, quella Mariangela scomparsa a gennaio, salutata con un applauso chiassoso sul sagrato di Santa Maria di Montesanto a Roma: «C'è un anagramma nel suo cognome: Melato=Amleto». Questo basterebbe a fare di lei quantomeno un'eroina nabokoviana, ma l'artista è più labirintica di una sciarada, e la sua vita più complessa di un rebus o di un romanzo. Milanese, figlia di un vigile urbano e di una sarta, ostinatamente «zitella» alla ricerca «di un principe azzurro, non di un marito», «troppo prussiana per poter fare contemporaneamente l'attrice e la moglie-madre», musa di Lina Wertmüller e Luca Ronconi, «rigorosa e anarchica, egocentrica e generosissima»: questa è Mariangela Melato, o perlomeno il ritratto che le cuce addosso Silvana Zanovello, laddove Dario Fo l'aveva definita «bestia da palcoscenico» e Fellini «una via di mezzo tra una divinità egizia e un extraterrestre». Ma per tutti fu la stessa, superba interprete di teatro, cinema e tv.
Bastano i titoli dei capitoli di questa biografia («Destino da primadonna», «Da grande farò l'attrice», «Non chiamarmi mamma», «Quel gusto della sfida»...) a definire la scorza e il talento della teatrante che, in oltre 50 anni di palchi e schermi, è entrata in scena o sul set con i legamenti a brandelli, le corde vocali lacerate, due costole fracassate, il tumore; oltre ai lividi, all'herpes, ai malanni di stagione, ai disturbi psicosomatici; oltre a essere più volte caduta dai praticabili, aver rischiato di annegare nell'Orlando Furioso ed essersi rotta il bacino durante la tournée di Nora alla prova, ennesima e ultima fatica (era il febbraio 2012; dopo non reciterà più) con Ronconi. Attrice e regista sono entrambi votati allo «stacanovismo, che è una variante della loro ilare disperazione»: lei lo considera il suo mentore, il maestro della «chiarezza crudele»; lui la dirige in molte produzioni, spendendo le più belle parole di affetto e stima: «Il nostro sodalizio artistico e la nostra amicizia sono nati quando ciascuno di noi si è accorto che riusciva a tirar fuori dall'altro qualcosa che l'altro non aveva intenzione di spifferare a nessuno. A me non va di sperperare la mia ironia di fronte a chi non avrebbe la capacità di interpretarla per quello che è. E a Mariangela non piace sprecare il suo dolore».
Per lei «la solitudine è la più grande fatica»: all'arte Melato ha consacrato tutto, relazioni in primis. Sposata con il teatro, sul palco è stata maga e centaura, Fedra e bisbetica domata, Medea e Madre Coraggio, bambina e ultracentenaria, sexy e androgina, prostituta e travestito, comica e tragica: «A lei il lavoro sembra inconcepibile senza una dedizione totale, senza quella spinta che le fa sembrare vera la vita soprattutto dalle otto a mezzanotte». E infatti lei replica: «Il teatro è una storia d'amore senza fine. Non so se la vita darebbe esperienze altrettanto appaganti»; per questo ha rinunciato a una carriera a Hollywood, ma pure alla conduzione di Domenica In al posto di Pippo Baudo. La diva discreta era caparbia e tenace, eppure Marco Sciaccaluga la descrisse come «una donna fragilissimamente dura e ricca di dura fragilità». Ecco quello che i fisici sanno da tempo: durezza e fragilità sono proprietà inversamente proporzionali. La Melato, come il diamante, ne è un esempio perfetto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Silvana Zanovello, Io, Mariangela Melato, De Ferrari, Genova,
pagg. 208, € 18,00

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