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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2013 alle ore 15:33.

Li hanno chiamati con molti nomi, Espressionisti astratti, Action Painters, artisti della Scuola di New York: nessuno, in realtà, capace di includere tutte le individualità di un gruppo di personaggi tanto eterogenei per storia culturale e linguaggio espressivo. Il collante più potente che univa questo drappello di artisti attivi a New York negli anni 50 (ma in gran parte di origine europea) era infatti la rivolta verso un'arte – quella americana del loro tempo – incapace di dar voce alle tragedie collettive e personali generate dalla guerra.
La definizione di "Irascibili", così efficace sul piano comunicativo (non a caso a coniarla fu l'«Herald Tribune»), sembra perciò la più calzante, anche se a suggerirla non fu la loro attitudine di rivolta ma un episodio contingente: era il maggio del 1950 e il Metropolitan Museum di New York annunciò che stava organizzando una mostra sull'arte americana contemporanea. Loro non erano invitati. Inviarono così una lettera di fuoco al presidente del museo, subito pubblicata dal NYT. Nel gennaio successivo sarebbe stato «Life» a consacrarli, con la fotografia di gruppo che ritrae 15 di loro vestiti da banchieri: uno sberleffo all'establishment. Con Jackson Pollock in quello scatto c'erano Willem de Kooning, Mark Rothko, Barnett Newman, Robert Motherwell, Adolph Gottlieb, William Baziotes, James Brooks, Bradley Walker Tomlin, Jimmy Ernst, Ad Reinhardt, Richard Pousette-Dart, Theodoros Stamos, Clyfford Still e, unica donna, Hedda Sterne.
Ribelli e inclini al "maledettismo", famosi agli inizi anche per le memorabili sbronze alla Cedar Tavern, questi artisti trovarono alimento nella lezione dei maestri europei che si erano rifugiati a New York, in fuga dalla guerra e dal nazismo: gente come Chagall, Dalì, Max Ernst, Léger, Masson, Tanguy, Mondrian... Non che sino ad allora non conoscessero il loro lavoro, avvicinato sulle riviste specializzate e in mostre memorabili come «Cubism and Abstract Art e Fantastic Art, Dada and Surrealism» viste nel 1936 al MoMA. Senza contare i capolavori di Kandinsky, astratti ma tramati di emozioni, come piaceva a loro, esposti dal 1939 nel Museum of Non-Objective Painting, il futuro Guggenheim Museum (Pollock lo conosceva bene, avendovi lavorato nel 1943 come falegname). Ora però molti di quei mostri sacri erano a New York e li potevano frequentare di persona, grazie soprattutto a Peggy Guggeheim, che aveva finanziato la fuga negli States di molti di loro e che avrebbe poi promosso i giovani americani nella sua galleria newyorchese "Art of this Century".
Di tutti furono i Surrealisti a segnarli più in profondità: da loro presero a prestito le modalità della scrittura automatica e del gesto pittorico libero da condizionamenti intellettuali. E grazie a quei principi, innestati sul gigantismo dei murales messicani e, spesso, sull'influsso dell'arte dei nativi americani, diedero vita a un linguaggio nuovo, sconvolgente, rivoltoso. Come scrisse Harold Rosenberg, nell'Action Painting la tela diventa «un'arena su cui agire». L'atto del dipingere si carica di furori neo-romantici e assegna il primato alle emozioni: il tutto espresso senza diaframmi, con una sorta di cieca furia gestuale che erompe liberamente dal profondo (almeno in teoria, visto che molti di loro, da Pollock a Kline, usavano fare numerosi disegni preparatori).
Ma se Pollock, De Kooning, Kline e gli altri maestri dell'Action Painting puntavano sulla potenza del gesto, c'era chi, come Mark Rothko, Barnett Newmann, Clyfford Still – i protagonisti del Color Field Painting – e altri ancora, optavano per vibranti campi di colore dalla spiritualità intensa e misteriosa: loro obiettivo, spiegava Clement Greenberg, era la purificazione della pittura da ogni scoria "eroica" (all'opposto dunque dell'epico esistenzialismo degli Action Painter e degli Informali europei), in cerca di una nuova ascesi formale. Di tutti loro il Whitney Museum, votato alla valorizzazione dell'arte americana, possiede veri capolavori, fra i più precoci e significativi. E se è vero che non è la prima volta che alcuni di essi giungono in Palazzo Reale (nel 2002 la mostra «New York Renaissance» ne portò a Milano oltre 90, dal 1946 al 2000) è però la prima volta che le opere esposte illustrano in modo tanto puntuale e felice questa stagione, che segnò il primo spostamento dell'asse mondiale dell'arte dalla Francia agli States. Articolata in otto sale, la mostra dedica le prime due a Jackson Pollock, da sempre considerato il leader naturale del gruppo. Ed è qui che si trova il gigantesco Number 27, 1950, esempio impressionante della tecnica del dripping, la sgocciolatura del colore sulla tela in orizzontale, suo "marchio di fabbrica" (suggeritogli però da Max Ernst e dalle sue Oscillation). La terza sala compie un passo indietro e presenta il precursore Arshile Gorky e chi fra loro già negli anni 40 praticava un'astrazione "espressiva": Ad Reinhardt, che in seguito evolverà verso una pittura severa, minimalista, William Baziotes, Robert Motherwell, Clyfford Still, Richard Pousette-Dart fino a Mark Tobey e alle sue fitte grafie all'orientale. A Franz Kline è dedicata una personale, anche per la singolarità della sua pittura, vigorosa e gestuale ma quasi sempre giocata sul bianco e nero e sorretta da progetti rigorosi. E con i suoi, ecco i "segni" tridimensionali di ferro o acciaio di David Smith, unico scultore in mostra.
Il passaggio al Color Field Painting occupa i due spazi successivi: c'è Hans Hofmann (lui nato ancora nell'800) e con lui Helen Frankenthaler, Hedda Sterne, Stamos, Gottlieb, Guston e altri, fino a Morris Louis e Sam Francis, tutti impegnati in un processo di depurazione della pittura convulsa degli Action Painter. Anche Willelm De Kooning ha una sala personale, non avendo lui mai abdicato a un rapporto, seppure lasco, con il reale. Da ultimo, l'approdo alla pittura monocroma, con Ad Reinhardt e Barnett Newmann, in sintonia con quanto si dibatteva anche in Europa (si pensi a Piero Manzoni e, prima ancora, al suo "maestro" Lucio Fontana): si apriva una nuova stagione.
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