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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2013 alle ore 08:47.

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Philip Pettit è un noto political theorist e filosofo sociale di origine australiana. On the People's Terms, che ha come sottotitolo A Republican Theory and Model of Democracy, fa seguito al suo Republicanism del 1997 (Feltrinelli) in cui la teoria repubblicana veniva per la prima volta presentata in maniera compiuta. La teoria repubblicana nella versione che Pettit intende difendere consiste nell'identificare nella soggezione al volere altrui il male per eccellenza della vita pubblica. L'obiettivo diviene così quello di promuovere al libertà come non-dominination, assenza di dominio. A questo obiettivo, sia motivazionale che filosofico, la democrazia, fornisce lo strumento procedurale per eccellenza. Su queste basi, Pettit vuole sostenere la sua visione, differenziandola dai più noti concorrenti, il liberalismo e il comunitarismo. Tale visione poggia su tre idee centrali. La prima è la menzionata idea di libertà come non-domination. La seconda ruota attorno al perno di una costituzione mista, e la terza presuppone la vigilanza di cittadini solerti che è poi il prezzo che si paga per la libertà. Le fonti storiche del repubblicanesimo così inteso sono quelle dell'antichità romana, come Cicerone e Livio, e del Rinascimento italiano a cominciare da Machiavelli. A queste si aggiungono Montesquieu, i whig radicali inglesi e i federalisti americani. Si tratta in sostanza di una tradizione italiano-atlantica, cosa che non può che farci piacere (anche se forse l'aggettivo "neo-romano" che Pettit spesso associa al repubblicanesimo sa per noi un po' troppo di fascismo...).
Il repubblicanesimo di Pettit ha ovviamente molto in comune con il liberalismo filosofico-politico. La differenza principale consiste nel fatto che – scrive Pettit – il liberalismo si accontenterebbe solo della difesa della libertà come non-interferenza mentre il repubblicanesimo privilegerebbe una versione attiva della cittadinanza. In questi termini, a mio avviso la distinzione non è chiara perché il liberalismo filosofico-politico contemporaneo è essenzialmente egalitario, cosa che impone di andare oltre la mera non-interferenza. Tuttavia, si può dire che il liberalismo sia più squisitamente teorico mentre il repubblicanesimo da più spazio alla partecipazione e alla retorica pubbliche. Queste ultime sono però viste dai repubblicani in un'ottica che presuppone l'eguaglianza politica dei cittadini. E l'eguaglianza politica è il cuore del liberalismo di Rawls e Dworkin, per cui l'opposizione al liberalismo sfuma.
Interessante è la congiunzione che Pettit propone tra repubblicanesimo e democrazia. Quest'ultima svolgerebbe nel repubblicanesimo un lavoro di legittimazione che le giustificazioni liberali non riuscirebbero invece a compiere. Il mio dubbio principale sulla posizione di Pettit concerne proprio l'insistenza sulla partecipazione. È anche superfluo ricordare che fascismo e comunismo raggiungevano vette altissime di partecipazione. E che quello che conta è piuttosto la partecipazione critica, che a sua volta presuppone liberalismo.
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Philip Pettit, On the Pepole's Terms: A Republican Theory and Model of Democracy, Cambridge University Press, New York,
pagg. 338, $ 24,99

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