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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2013 alle ore 08:58.

Joseph Ratzinger nell'Introduzione al Cristianesimo, la sua opera piú nota prima di diventare Benedetto XVI, evoca un particolare ritratto di Dante, quello che è delineato nella « commovente conclusione della Divina Commedia, allorché egli, contemplando il mistero di Dio, scorge con estatico rapimento la propria immagine, un volto umano, al centro dell'abbagliante cerchio di fiamme formate da "l'Amor che move il sole e l'altre stelle"». In realtà il passo a cui si fa cenno («dentro da sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effige; / per che 'l mio viso in lei tutto era messo»: Paradiso, XXXIII 130-32) rimanda all'Incarnazione di Cristo e quella «nostra effige è il volto umano di Gesú, che è contemplato dal nostro "viso", cioè dalla nostra visione, dal nostro sguardo. Sta di fatto, però, che in questi versi, citati da Ratzinger, si ha anche il profilo ideale autentico del poeta e della sua fede. Egli è, infatti, un grande e appassionato credente e testimone della fede cristiana.
L'attestazione piú alta e nitida è nel canto XXIV del Paradiso, dedicato proprio alla fede, il primo di un trittico che – sotto la volta del cielo stellato – vede sfilare le virtù teologali. Dante, quindi, viene sottoposto a un esame teologico da tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni – i tre testimoni privilegiati dei momenti piú segreti della vita terrena di Gesù –, rispettivamente sulla fede, sulla speranza e sulla carità. Il nostro ideale pellegrinaggio al seguito del poeta si fermerà alla prima tappa, quella dell'esame di fede di Dante. Naturalmente la nostra non sarà un'esegesi critica dei 154 versi di questo originale canto spirituale, ma sarà solo la testimonianza di una sintonia tra teologo e poeta teologo. Sí, perché Dante rivela, intimamente intrecciata con la sua arte, proprio la sua fede e l'approfondimento a cui si è votato nella sua ricerca teologica. Come è stato scritto da una commentatrice, Anna Maria Chiavacci Leonardi, in questo canto «la teologia non è più esposta da altri, ma diventa fatto personale, la ragione stessa della vita di chi parla». Una premessa è necessaria e riguarda il genere che Dante impone al suo canto teologico: in esso la professione di fede adotta un impianto drammatico, quasi da canto amebeo, perché si snoda attraverso un dialogo fatto di domande e risposte che intercorrono tra il «gran viro a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi» (vv. 34-35), cioè san Pietro, e Dante stesso interpellato sulle questioni «lievi e gravi» del credere, i levia et gravia del tradizionale dibattito teologico della Scolastica. L'aspetto rigoroso del confronto è esplicitato dal poeta stesso che ricorre a un'immagine accademica, comparandosi al «baccialier», al baccelliere nella tensione della vigilia dell'esame universitario (v. 46).
Una esperienza, quindi, dinamica e qualificata che sarà confermata dal contenuto stesso della verifica a cui l'alunno si sottoporrà. Entriamo, allora, anche noi nell'aula celeste fattasi silenziosa ove Dante emozionato è davanti al «sodalizio eletto» (v. 1), all'accolta dei santi e al suo esaminatore, l'apostolo Pietro. Eccoci dunque al dialogo-interrogazione. Esso si apre con la domanda di base, radicale e fondamentale: «fede che è?» (v. 53), qual è la sua «quiditate» (v. 66), la sua essenza? La risposta è formulata attraverso la citazione della definizione offerta dalla Lettera agli Ebrei (11, 1) che la tradizione riteneva fosse dell'apostolo Paolo, anche se in realtà questa, che è una sorta di grandiosa omelia, è da assegnare a un autore e a un orizzonte letterario e teologico differente. «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi» (vv. 64- 65): è la resa puntuale della versione latina della Vulgata che Dante possiede, Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium. Questa resa ha i due cardini nelle parole «sustanza» (nell'originale greco hypóstasis) e «argomento» (élenchos). Ed è appunto sul valore di questi due termini che si sviluppa la seconda interrogazione di Pietro, ed è interessante notare che Dante anticipa quanto è stato ribadito da Benedetto XVI nella sua Enciclica Spe Salvi, al numero 7, proprio riguardo al passo della Lettera agli Ebrei: «sustanza» non è tanto il principio fondante per sperare, la sorgente e la spinta verso la speranza, bensí il contenuto stesso, l'"ipostasi" della speranza. La realtà della gloria sperata è anticipata e svelata già nella fede, come commentava san Giovanni Crisostomo nella sua X omelia sulla Lettera agli Ebrei: «Poiché le cose che speriamo non sembrano poter avere consistenza, la fede dà ad esse sostanza, anzi essa stessa costituisce la loro essenza» (Patrologia Graeca LXIII, 451). La fede, poi, è anche «argomento», cioè dimostrazione (coerente al suo interno) delle realtà sperate che non sono «parventi» al mero percorso razionale. Si delinea, cosí, la logica interna alla fede, il suo statuto epistemologico proprio, il suo «silogizzar» (v. 77) nel cuore stesso del credere.
Fiorisce a questo punto la terza domanda: qual è la base sulla quale esercitare la ricerca argomentativa della fede così da avere la rivelazione della realtà delle «cose sperate»? La risposta di Dante è netta: è la Parola di Dio che è presente «in su le vecchie e 'n su le nuove cuoia» (v. 93), cioè nelle pergamene della Bibbia. Al loro interno deve svilupparsi l'analisi teologica, il «silogismo» (v. 94) che le è proprio: essa si svolge su un altro livello rispetto a quello strettamente razionale la cui «dimostrazion» risulta in questo orizzonte «ottusa» (v. 96), cioè spuntata e debole.

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