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Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2013 alle ore 09:05.

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Passato nello scorcio dell'ultima Mostra del cinema di Venezia al l'interno della sezione Orizzonti, La prima neve, opera seconda di Andrea Segre, non ha ricevuto la stessa attenzione di altri film italiani.
Eppure il percorso di questo regista conferma quanto il resto del festival (e del cinema di questi anni) ci diceva: l'importanza del l'idea documentaria, del mondo della non-fiction, come scuola per trovare paesaggi e personaggi, per costruire spazi da osservare e giuste distanze tra sé e quel che si osserva. Il vincitore Gianfranco Rosi ma anche per certi versi Emma Dante, e ovviamente Rossetto e Gaglianone, continuavano quanto dimostrato negli anni scorsi da registi diversissimi come Di Costanzo e Alice Rohrwacher, Pietro Marcello e Michelangelo Frammartino; mentre si accinge a debuttare nel cinema di fiction un altro nome di rilievo internazionale come Stefano Savona.
Dietro questo film di Segre, ad esempio, c'è un'attività di osservatore, a partire dai propri luoghi (il documentario su Marghera), attraverso un'attività di documentarista militante (sugli sbarchi a Lampedusa, sulla rivolta di Rosarno), e di "documentario partecipativo", ossia di esperimenti interessanti di lavoro non "su" ma "con" gli immigrati, con l'associazione ZaLab. Ma più in generale c'è un lavoro di ascolto, e una sensibilità di paesaggista che era il punto di forza del suo esordio, Io sono Li.
Qui come lì, la presenza di uno "straniero" serve anzitutto al regista a situarsi prossimo a lui, ma solo fino a un certo punto: ad assumerne anzitutto il letterale spaesamento, quei tempi morti nei transiti in cui si guardano luoghi da loro lontanissimi. Così facendo, i paesaggi (veri protagonisti di questi due lungometraggi) da noti che erano, prossimi al regista, svelano i loro lati nascosti. Certo, rispetto ai suoi documentari, in fondo qui il confronto con l'altro non è diretto, e come spesso accade serve a parlare di noi (italiani) più che degli altri.
Il piccolo Michele (Matteo Marchel), un bambino di dieci anni, vive con la madre Elisa (Anita Caprioli) a Pergine, tra i monti del Trentino. Il padre non c'è più, e il come e il perché lo scopriremo poco a poco. Quel che da subito vediamo è che Michele, come è facile immaginare, a scuola non va bene (anzi, a volte non va affatto), e vaga in giro con coetanei, in quel mondo un po' immaginario e un po' reale di avventure, fatto di capanne tra i boschi e leggende di orsi assassini. Il rapporto più intenso è col nonno paterno Pietro (Peter Mitterrutzner), vecchio falegname e apicoltore; ma poco a poco nella vita del ragazzo e di sua madre si fa sempre più spazio un'altra figura. È Dani (Jean-Christophe Folly), profugo proveniente dal Togo attraverso la Libia, in uno di quei terribili viaggi per mare che stanno cominciando a turbare anche la parte peggiore del nostro Paese. Anche nel passato di Dani, che lavora col vecchio Pietro in attesa forse di raggiungere la Francia, c'è qualcosa di traumatico, che la sua cupezza e i suoi silenzi ci mostrano da subito.
Il film racconta questo: il rapporto tra un figlio senza padre e un padre, scopriremo, senza figlio (o che rifiuta il proprio figlio). Lo spaesamento del film è anche sonoro: si parla in dialetti italiani e tedeschi, e dall'altro in arabo e in francese degli africani. Ma, come si diceva, la forza del film è anzitutto nella relazione tra i personaggi e i luoghi. Protagonista, insieme a Dani e Michele, è il bosco, raffigurato con un'intensità rara (il nostro cinema in fondo ha narrato poco boschi e monti). Luoghi che, nella fotografia di Luca Bigazzi, si spostano dal realismo a una dimensione magica, tra il fiabesco e il gotico, seppur mai sottolineata. Il film a tratti indugia fin troppo in questa contemplazione, nei ritmi distesi, e nel l'adesione a un certo stile riconoscibile, da film d'autore, con macchina a mano e moderati interventi musicali.
Segre non è un asceta, cerca la comunicazione e un certo calore pur nella lentezza: non rinuncia alla musica, appunto, non disprezza i suoi personaggi (come molti autori si sentono in obbligo di fare), e inserisce tra gli attori facce riconoscibili (Giuseppe Battiston, Roberto Citran, Paolo Pierobon). Costruisce la sua storia in maniera lineare, con il progressivo sciogliersi della tensione e i segreti che si svelano poco a poco. Segre è a suo modo un bravo regista "di genere" (anche il cinema d'autore è un genere, con le sue regole e i suoi temi). E alla fine il suo film riesce ad avvicinarci non solo a quei luoghi, ma anche agli stati d'animo dei personaggi, e commuove come un piccolo mélo, onesto e nitido.
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