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Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2013 alle ore 09:07.

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Che splendido racconto è l'incompiuto Lenz di Büchner, una scheggia di bellezza febbrile, abbacinante, un bruciante viaggio nel delirio. E che straordinaria lezione di teatro ne ha tratto Claudio Morganti, un'esperienza anomala a metà tra la lettura, la dimostrazione di lavoro e lo spettacolo vero e proprio. Mit Lenz, proposto per due sole sere al festival «Contemporanea» di Prato, è uno di quei felici casi in cui la rappresentazione in sé coincide con la riflessione sulla rappresentazione, e i due livelli di intervento si rinforzano a vicenda. In Lenz l'autore del Woyzeck, appena ventiduenne, ricostruisce con immagini lampeggianti il precipitare nella malattia mentale di un altro genio precoce, lo scrittore Jakob Lenz, che rivelò il suo folgorante talento all'età di quindici anni, ma poi si perse nel tunnel della schizofrenia, e fu trovato morto, poco più che quarantenne, in una via di Mosca. Büchner lo descrive nel suo vagabondare sui monti Vosgi, nei suoi stralunati dialoghi col pastore Oberlin, il teologo luterano che gli diede ospitalità, nei suoi visionari smarrimenti notturni.
In un linguaggio insieme acceso e lucidissimo nel dispiegare i sintomi della follia, il breve scritto evoca un mondo interiore pietroso e dissestato come i panorami rupestri in cui va errando l'inquieto protagonista. C'è, nella raffigurazione di questa sua progressiva esaltazione psichica, una dolente precisione clinica: ma al tempo stesso essa sembra assumere un che di sottilmente metaforico, come se quei cedimenti del corpo e dello spirito rispecchiassero un'ansia in qualche modo superiore, una più alta tensione all'assoluto. Morganti ambienta la sua messinscena in uno spazio che, per certi versi, richiama fisicamente quel devastato paesaggio dell'anima. Mit Lenz, nella sua concezione, deve infatti svolgersi in un luogo simbolicamente «mai toccato da mano umana», che in questo caso è una cantina del Teatro Magnolfi, fra pareti di mattoni a vista, colonne scrostate, lastre di pietra accumulate una sull'altra, delle sedie, un tavolino, un mucchio di terra, delle bottiglie, un crocefisso appeso al muro.
L'arrivo del pubblico viene accolto con osservazioni sull'importanza rituale della fase dell'ingresso in sala. Poi Morganti legge le pagine iniziali del racconto, e passa quindi a enunciare un pensiero di Julian Beck, «il teatro è come un respiro che si contrappone all'invadente silenzio della morte». Il bravo Antonio Perrone, il suo giovane compagno di scena, comincia ad ansimare rumorosamente. «Ecco – dice Morganti – se io dovessi fare Lenz in teatro vorrei iniziare così». Poi prende posto al tavolino, nei panni, per così dire, del pastore, mentre Perrone-Lenz gli si siede davanti. Tutto lo spettacolo entra ed esce di continuo dal testo: si passa da accenni di lancinante immedesimazione a considerazioni teoriche sui fini dell'arte. Lenz evoca le sue allucinazioni, Morganti offre vino alla platea. Recita e parla della recitazione. Con una trovata irresistibile, elenca le definizioni fornite dal dizionario del termine teatrale («esagerato», «enfatico», «plateale») e i loro contrari, «sincero», «autentico» e così via, suggerendo che questo schema vada ribaltato, che proprio la sincerità debba essere l'attributo dell'attore.
Ed è appunto per arrivare a un ulteriore grado di sincerità, a una forma di dimessa verità che lui smantella la convenzione interpretativa, che ora si cala nell'azione, ora la osserva come da lontano. In questo modo non attenua, ma acuisce anzi l'emozione, la fa arrivare per altre vie, più spiazzante e trasversale.
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Mit Lenz, ideazione e regia di Claudio Morganti. Visto al Teatro Magnolfi di Prato

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