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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2013 alle ore 09:01.
L'ultima modifica è del 02 novembre 2013 alle ore 14:45.

Non è affatto scontato che i grandi debbano invecchiare bene. Soprattutto se eccedono con la produzione, si sforzano di rimanere a tutti i costi fedeli a sé stessi ma la vena creativa non è più quella dei tempi d'oro. Spesso gestirsi con maggiore parsimonia, guardarsi intorno con intelligenza e prendersi qualche rischio sono logiche che pagano.
Lo ha capito bene Paul McCartney che torna in questi giorni sul mercato con «New», suo sedicesimo album solista in studio. Il disco arriva un anno dopo le incursioni nello swing di «Kisses on the bottom» e sei dopo «Memory almost full», ultimo lavoro con pezzi originali dell'ex bassista dei Beatles.

Macca sembra aver scelto insomma di cominciare a «dosare» con maggiore oculatezza la sua produzione, centellina sé stesso, non sforna più con la tradizionale puntualità un disco ogni due anni. Sarà perché ha la bellezza di 71 anni, sarà perché ai bagni di folla dei concerti non riesce a rinunciare o forse perché, come scherzosamente precisa nelle note di accompagnamento dell'album, gli tocca accompagnare a scuola l'ultimogenita. Comunque sia, scelta azzeccata: era dai tempi di «Chaos and creation in the back yard» che non sentivamo un McCartney così ispirato nella composizione, forse ancora meglio del disco del 2005. Paga l'atipica decisione di non affidarsi a un unico produttore, ma prenderne quattro diversi – tutti giovani - e lavorare in parallelo con ciascuno di essi alle singole tracce.

C'è Paul Epworth, 39enne pigmalione di Adele e Florence and the Machine. C'è Mark Ronson, raffinatissimo producer della compianta Amy Winehouse. Ci sono Giles Martin, figlio d'arte del leggendario George che «inventò» il suono dei Fab Four, ed Ethan Jones, figlio di Glyn, ingegnere del suono di «Let it be». Innovazione nel rispetto della tradizione, miglior trattamento che si possa immaginare per una leggenda vivente. Quanto al pericolo di «disomogeneità» tra i brani, causa otto mani diverse in consolle, Paul si è dato la migliore risposta possibile: non erano forse meravigliosamente disomogenei i dischi dei Beatles?

Alla fine ciascuno ci ette il suo e «New» suona che è una bellezza. Epworth porta Paul in territori post Brit Pop con le ruggenti «Save us» e «Queenie eye», fino a sfiorare la dissacrazione con l'episodio lo-fi di «Road», pezzo che chiude il disco. Ronson sembra quello più attento al curriculum di Sir Paul: «Alligator» ha una strofa alla Wings e un arrangiamento pieno di Mellotron e clavicembalo, strumenti parecchio frequentati da «Rubber Soul» in poi; la title track che ha anticipato l'uscita del disco è una specie di rilettura attualizzante dell'immaginario musicale Sixties, dove le armonie vocali comandano incontrastate.

Martin, ragazzo che Paul conosce sin dalla più tenera età, si prende confidenze che altri non potrebbero: prima mette Macca a suo agio con la cavalcata pop di «One my way to work» (che bridge, ragazzi!), poi lo invita alla scorribanda drum and bass di «Appreciate» che sembra farina del sacco di Bowie, lo asseconda quando ha in mente soluzioni orecchiabili come «Everybody out there» che non sfigurerebbero in «Flowers in the dirt», lo lascia ammiccare ai fan su «I can bet» ma lo obbliga frullare una sua ballad tipo come «Looking at her» in un distillato di noise ed elettronica. Jones aiuta Paul in «Hosanna» e sull'acustica «Early days», uno dei momenti più alti del disco: il Nostro ricorda l'adolescenza a Liverpool al fianco di Lennon. Ci sono momenti in cui lo devi lasciar fare.
Paul McCartney
«New»
Hear Music/ Universal

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