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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2013 alle ore 08:47.

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Direte che si finisce sempre per dar la colpa a Beppe Grillo, ma nel mio caso non ho dubbi: tutto è cominciato, trent'anni fa, con Te lo do io il Brasile, il ciclo di «appunti di viaggio» un po' cialtroni trasmessi dalla Rai dove il comico si aggirava tra caschi di banane, mulatte formosissime e ballerini di samba. È da allora che ho preso a pensare all'America Latina come a una gigantografia iperrealista dell'Italia, una grandiosa parodia dei caratteri nazionali. Laggiù il calcio era più calcio che da noi, la tv se possibile più carnevalesca e melodrammatica, l'erotomania più pervasiva, la politica più capricciosa e pittoresca, il populismo più straripante, la sinistra (quella marxista) perfino più tarda di riflessi della nostra.

Insomma, mi ero messo in testa un bel po' di stereotipi, ed ero ormai sulla buona strada per correggerli, quando mi sono imbattuto nel nuovo libro di Gabriel Zaid e ci sono ricaduto appieno. Dinero para la cultura (Debate) raccoglie quarant'anni di interventi dello scrittore messicano, comparsi per lo più su Vuelta, la storica rivista di Octavio Paz, e sulla sua erede Letras Libres, il cenacolo più prestigioso dei liberali latinoamericani (quattro gatti, come da noi). Il filo conduttore è il modo in cui la cultura si finanzia e si organizza.

Te lo do io, il Messico! Zaid racconta di un Paese dove alla corte di uno Stato mecenate è cresciuta una «fauna parassitaria» di burocrati tonti, mediocri di talento e sindacati irresponsabili; dove l'istruzione superiore produce in serie ignoranti che non sanno neppure di non sapere; dove abbondano i libri mal tradotti, mal curati, imbottiti di refusi, da chiedersi se l'editore li abbia aperti prima di darli alle stampe; dove le istituzioni culturali «sprecano milioni in annunci narcisisti privi della minima informazione pratica», tanto per far sapere che esistono e fanno cose belle; un Paese dove il giornalismo culturale sguazza nell'approssimazione, e dove uno scrittore con il debole per il copia-e-incolla può difendere impunemente plagi mastodontici come «omaggi»; dove i premi letterari non sono che dispendiosi strumenti di pubbliche relazioni; dove gli sconti delle grandi catene creano distorsioni nel mercato del libro, ma i librai e i piccoli editori non trovano di meglio che invocare il protezionismo. Ecco, mi sono detto, un'Italia in formato gigante, una caricatura ammonitoria e feroce. Tutto corrisponde, anzi quasi tutto. Sapete cos'è che ci manca? Un Gabriel Zaid che ci metta allo specchio.

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