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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2013 alle ore 08:28.

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Mentre noi concludiamo le celebrazioni della settimana della lingua italiana, la Lituania coglie l'occasione della sua presidenza del semestre europeo per festeggiare nella giornata europea delle lingue la ritrovata vitalità della sua lingua e i dieci anni di adesione all'Ue che le hanno saldamente garantito un futuro. Un futuro che non era per niente certo fino a qualche anno fa, quando la Lituania era una provincia dell'impero sovietico e la sua lingua era imbottigliata in una conservazione studiata per annientarla. Il salvataggio del lituano è una gloriosa epopea di resistenza dove tutte le armi sono state usate, fino al contrabbando di libri nella Russia sovietica e alle cosiddette lettere al latte che gli oppositori scrivevano appunto con il pennino intinto nel latte fra le righe scritte a inchiostro per trafugare messaggi segreti. A vedere la parabola della lingua lituana, viene da dire che come l'agricoltura, anche la cultura deve venire dalla campagna, perché è nel provvidenziale isolamento delle loro fattorie che i lituani hanno conservato la loro. Erano quasi fortezze in un Paese privo di città importanti. Così la Lituania ha sfinito nei secoli l'invasore tedesco e poi russo per riemergere indipendente alla caduta dell'Urss con la sua lingua intatta.
Una lingua non da poco, una delle più antiche del continente, l'anello mancante fra le nostre e l'antica matrice indoeuropea. Se il lituano talvolta assomiglia al latino, non è un caso, ma è per la qui più visibile radice comune. Ma la chimica delle lingue è sempre imprevedibile e così resta misteriosa la profonda differenziazione che si è prodotta fra lituano e lettone, parenti stretti oggi reciprocamente indecifrabili. Anche qui deve aver contato molto la campagna e la cocciuta reticenza al cambiamento di questi popoli che sono anche stati gli ultimi d'Europa a convertirsi al cristianesimo. Oppure anche questo è un segno che, come scrive David Cannandine nel suo saggio The undivided past, le nazioni non sono poi la definitiva forma di redenzione della solidarietà umana che pretendono di essere e talvolta la varietà è la forma più praticabile di convivenza.
Di varietà ne aveva imbarcata molta la Lituania se sul primo elenco telefonico di Vilnius figuravano solo due nomi lituani e tutti gli altri erano ebrei. Come definire allora la vera appartenenza di una cultura in una parte d'Europa dove la demografia è stata tanto stravolta dalle guerre? E quale lingua è quella giusta? Quella che serve per parlare al mondo o quella che serve per nascondersi al mondo? In fondo la Lituania è stata grande quando comprendeva anche russi, tedeschi, ucraini e polacchi. Di certo il granducato transnazionale che arrivava fino al Mar Nero parlava ben poco lituano. Diceva Kafka che non scrivere è impossibile, scrivere in tedesco è impossibile ma anche non scrivere in tedesco è impossibile.
Il lituano, come tutte le lingue liberate dal comunismo, ora sta inventando le parole della sua nuova modernità e cerca la purezza e la precisione che solo le lingue poco parlate possono avere perché non sono costrette al pressapochismo delle grandi lingue, quelle che il poeta gallese Jon Gower chiama lingue cannibali, come l'inglese. Ancora oggi Vilnius ha l'apparenza di una qualsiasi città germanica settecentesca, con il suo barocco e neoclassico a tratti visibilmente oppresso dalla durezza di padiglioni sovietici e altri monumenti spigolosi come le permanenti ancora stranamente in voga fra le donne di quassù. Ma nelle strade dove il traffico ha talvolta un'aggressività caucasica si nota lo sforzo di riscatto identitario che prende la forma di accaniti restauri e perfino di fantasiose ricostruzioni, come il palazzo dei granduchi, di cui restavano pochi sassi e che ora svetta in tutto il suo finto splendore a due passi dalla cattedrale. Forse la prova che ogni tradizione è un'invenzione, come scriveva Eric Hobsbawm e che in fin dei conti aveva ragione Benedict Anderson quando diceva che «le nazioni non dovrebbero essere viste come unità di sovranità territoriale eterne e precisamente definite ma come comunità immaginarie».
La Lituania di oggi è uno dei frutti della dottrina dell'autodeterminazione dei popoli con cui Woodrow Wilson si illudeva di risolvere la complessità dell'Europa dopo la Prima guerra mondiale. Abbiamo oggi esaurienti prove che questo modello politico è stato devastante per l'Europa. Ancora oggi siamo occupati a sanare le ferite delle frontiere imposte dai trattati di Versailles, che riconoscevano legittime le aspirazioni di certi popoli e pretestuose quelle di altri. Per inciso, furono le potenze riunite a Versailles ad avallare l'illegale occupazione polacca di Vilnius. È anche evidente che, come scrive sempre David Cannandine, «malgrado il fatto che si siano moltiplicati fino a diventare quasi duecento, gli Stati nazione e le identità nazionali sono generalmente considerati come una specie grandemente in pericolo nel mondo che ancora sta emergendo dalla fine del comunismo e del colonialismo».
La Lituania di oggi ha trovato il suo posto nel progetto politico dell'Unione europea che di fatto mira a ricostruire la varietà e la mescolanza culturale e linguistica che ha sempre caratterizzato in passato il vecchio continente. Ancora David Cannandine ricorda che nel 1860 esisteva già un mercato comune fra Regno Unito, Francia, Belgio, Italia, Prussia e Austria e che nel 1865 Francia, Belgio, Italia, Grecia e Svizzera, molto prima dell'euro, si erano associate nell'Unione monetaria latina. La differenza fra l'Europa di oggi e quella degli imperi è sicuramente la democrazia. Ma la democrazia non ferma la moltiplicazione delle frontiere e delle divisioni dentro la nostra Europa ed è ancora una volta molto difficile dire quali sono le legittime aspirazioni di comunità autentiche e quali le pretestuose costruzioni separatiste che parlano alla pancia di popoli impauriti dall'apparente diversità di chi non parla la loro lingua. Allora la ricetta può essere solo una: la separazione della lingua dall'identità che si potrà raggiungere solo con quella condivisione delle lingue cui faticosamente mira la strategia del multilinguismo europeo.

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