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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2013 alle ore 07:23.
L'ultima modifica è del 29 ottobre 2013 alle ore 07:29.

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Federico Fellini (Ansa)Federico Fellini (Ansa)

«Avevo sempre sognato, da grande, di fare l'aggettivo. Ne sono lusingato. Cosa intendano gli americani con "felliniano" posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto»: Federico Fellini era solito ironizzare sulla sua straordinaria popolarità, quasi intimidito da un successo che, pur da grande sognatore narcisista qual era, non avrebbe mai potuto immaginare.

Nato a Rimini il 20 gennaio del 1920, Fellini muore a Roma il 31 ottobre del 1993, pochi mesi dopo esser stato omaggiato con l'Oscar alla carriera, quinta statuetta ricevuta dall'Academy dopo le quattro vinte per il miglior film straniero: «La strada» (1954), «Le notti di Cabiria» (1957), «8 ½» (1963) e «Amarcord» (1974). A queste si vanno a sommare, tra i tanti riconoscimenti, una Palma d'Oro per «La dolce vita» (1960) e il Leone d'Oro alla carriera tributatogli dalla Mostra di Venezia nel 1985.

Appassionato di disegno e deciso a fare il giornalista, appena arrivato a Roma, Fellini mostra il suo precoce talento dall'aprile del 1939 come firma del «Marc'Aurelio», il principale giornale satirico italiano del periodo. La prima esperienza dietro la macchina da presa è per «Luci del varietà» (1950), che dirige in coppia con Alberto Lattuada, mentre il suo esordio registico in solitaria è segnato da «Lo sceicco bianco» (1952). Fin dai primissimi (capo)lavori, da «I vitelloni» (1953) a «La dolce vita», il suo cinema ritrae la realtà sociale dell'epoca mescolata alla sua fantasia e al suo universo personale: clown, prelati, "gradische", aristocratici corrotti e giullari di ogni tipo sono soltanto alcuni dei personaggi che attraverseranno l'intera opera di un regista che non ha mai dimenticato il suo passato "provinciale" e i sogni della sua infanzia.

Fellini - che aveva Picasso come artista prediletto . continuerà a rielaborare quel mondo per tutta la carriera, caratterizzata dal primo all'ultimo titolo da uno stile personale e ammirato in ogni parte del mondo, che lo stesso regista riminese amava definire con queste parole: «Non sono per il cinema-verità, sono per il cinema-falsità». Dopo aver segnato con «8 ½» - opera metacinematografica con protagonista un regista in crisi creativa- una tappa nella storia della settima arte, i suoi lavori si faranno sempre più pessimisti nella descrizione di un mondo vuoto e superficiale che attende soltanto di naufragare definitivamente.

Negli anni '70 i suoi film (da «Fellini Satyricon» del 1969 a «La città delle donne» del 1980) ritraggono volti stanchi e corpi decadenti, tenuti in vita da folli visioni surreali, ossessionati dal sesso e vittime della solitudine. La noia e la futilità esistenziale si tradurranno in un maestoso affresco funebre in «E la nave va» del 1983, a cui seguiranno «Ginger e Fred» (1985), «Intervista» (1987) e «La voce della luna» (1990), un ultimo film-testamento con cui Fellini si congederà dal mondo del grande schermo. Oggi, a vent'anni della sua morte, rimane il ricordo di un cinema che non è stato e non sarà mai ripetibile, insieme al rimpianto di non aver potuto ammirare altri due grandi progetti, da lui soltanto sognati e mai realizzati: «Il viaggio di G.Mastorna» e «Viaggio a Tulun», le cui sceneggiature si trasformarono, tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, in fumetti disegnati da Milo Manara.

Sul grande schermo, tra i migliori omaggi recenti che gli siano stati tributati ricordiamo: la conclusione di «Big Fish» di Tim Burton che rimanda al carosello finale di «8 ½», i riferimenti a «La dolce vita» ne «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino e il film «Che strano chiamarsi Federico», toccante ricordo dell'amico e collega Ettore Scola, presentato fuori concorso all'ultima Mostra di Venezia.

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