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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2013 alle ore 11:26.
L'ultima modifica è del 15 novembre 2013 alle ore 12:36.

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Una scena del film "Venere in pelliccia"Una scena del film "Venere in pelliccia"

Finisce il Festival di Roma, i riflettori tornano sui film in sala. E la qualità media delle uscite di questa settimana è decisamente buona. Su tutti spicca Venere in pelliccia di Roman Polanski, gioiello di scrittura e recitazione, una lezione di cinema mostrata su un palco teatrale. Un passo indietro, ma è comunque ottimo L'ultima ruota del carro di Giovanni Veronesi, seguito dal godibilissimo Il paradiso degli orchi, tratto dal capolavoro di Daniel Pennac. Gradevole e con ritmo, poi, la commedia-remake di Alessio Maria Federici Stai Lontana da me, sono invece da evitare The Canyons, porno-soft mascherato con una Lindsay Lohan sempre più impresentabile e Jobs, in cui Ashton Kutcher è solo la punta dell'iceberg di un'opera imbarazzante per la sua pochezza.

Ha chiuso il concorso dell'ultimo Cannes, Polanski, e lo ha fatto con un lungometraggio che racconta – adattando una piéce ispirata alla Venere in Pelliccia di Leopold Von Sacher-Masoch – la complessità perfida dei rapporti tra uomo e donna e la difficoltà di fare arte, teatro, cinema.

A interpretare queste emozioni titaniche, sono la moglie del cineasta, Emmanuelle Seigner e un ritrovato e brillantissimo Mathieu Amalric. Una notte insieme, dialoghi serrati, il regista totalmente al servizio del loro talento e del loro lato oscuro, ci pongono di fronte a una grande prova di cinema e analisi psicologica, come già Roman aveva fatto con Carnage. E lui saprà, per l'ennesima volta, catturare tutta la vostra attenzione mettendovi come sempre a disagio, perché vi guarderà dentro più di quanto vorrete. E in fondo questo è il merito, con le debite proporzioni, anche di Giovanni Veronesi: L'ultima ruota del carro dà una svolta alla sua carriera, con un racconto d'ampio respiro e con la consapevolezza di essere un autore che, soprattutto in scrittura e nella direzione degli attori, raggiunge alti livelli. La storia d'amore (tra Elio Germano e Alessandra Mastronardi) e d'amicizia (del primo con Ricky Memphis) è lo sguardo sulla brutta Italia degli ultimi trent'anni attraverso gli occhi degli ultimi. Di due comparse. Questo ragazzaccio di Prato sa raccontarli con poesia, concrezza e sorriso amaro, ripercorre la nostra storia peggiore con il loro candore. E quell'Ernesto Fioretti, che esiste davvero, ci sembra un meraviglioso Forrest Gump alla romana.

Un altro che l'ultimo lo sa fare così bene da divenire un capro espiatorio è il mitico Malaussene di Daniel Pennac. Finalmente al cinema con Il Paradiso degli orchi grazie al 33enne Bary. Un po' thriller un po' Amelie, un po' commedia e un po' melodramma, questo film si avvale di uno stile semplice e colorato, di un buon ritmo e di facce meravigliose come quelle di Berenice Bejo e Emir Kusturica. Sembrava impossibile portare quel libro sul grande schermo e invece l'esperimento è riuscito. Anche se le pagine scritte rimangono inarrivabili, il senso e lo spirito di una saga geniale e umanissima la ritroviamo qui, 28 anni dopo la stampa del suo primo "capitolo".

Se volete ridere in modo leggero, invece, c'è Stai lontana da me. Opera seconda di Alessio Maria Federici, è un piacevole divertissement tratto dal francese Per sfortuna che ci sei. La storia è semplice: lui (Brignano) porta sfortuna a tutte le sue fidanzate, lei (Angiolini) è pronta a sfidare la sorte per amor suo. Commedia di situazione con un coté slapstick inevitabile e ben giocato, risulta ben più solida e meglio scritta dell'originale e si fa guardare con piacere. E al regista va fatto un applauso: punta su Ambra, che con la risata sta giocando da poco ma bene, e rende simpatico ed empatico Brignano al cinema, finora sempre fuori fase sullo schermo. Aspettiamo il cineasta su una cosa tutta sua: talento e intuizioni ci sono e meritano la briglia sciolta.

Una delusione su tutti i fronti, invece, Jobs. Tutto è sbagliato e tutto è da rifare in questo biopic in cui la regia sembra quella di uno speciale tv fatto male, la scrittura è da prima settimana di un (pessimo) corso di sceneggiatura, e l'attore protagonista, Ashton Kutcher, non è mai in parte. Si punta sull'antipatia asociale di Jobs, la sua genialità diventa naif, le sue intuizioni quasi capricci. La narrazione non ha mai picchi, l'aspetto personale e professionale di mister Apple sono trattati alla stregua di una caratterizzazione di serie C. Una colossale occasione persa, come quella di The Canyons, storia di perversioni borghesi e di amori sbagliati: Paul Schrader è un regista straordinario, Lindsay Lohan è (stata) un talento purissimo. Il risultato del loro tardivo incontro però è solo pruriginoso e avvilente.

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