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Questo articolo è stato pubblicato il 21 novembre 2013 alle ore 08:22.
Non è una salsa al pomodoro, neanche la cittadina dell'Idaho dove Ernest Hemingway si tirò una fucilata. Ketchum è un colosso delle public relation, con 23 uffici in tutto il mondo e il doppio di affiliate e associate dall'Europa all'Asia. Niente di strano, dunque, che Vladimir Putin abbia deciso di affidarsi alle sue cure per i rapporti con i media occidentali. Di recente, è stato BuzzFeed a guardare in filigrana l'editoriale con cui il presidente russo ha fissato sul New York Times la sua posizione sulla Siria, chiedendosi il ruolo giocato da Ketchum nel negoziato per assicurarsi le colonne dell'autorevole quotidiano americano. Ne è uscita una intricata, imbarazzata triangolazione, che racconta di come nascono certe occasioni, quali siano i canali, le professionalità dietro a un intervento come quello di Putin. Qualche mese fa ProPublica aveva scoperto e tracciato la "manina" dietro alcuni articoli apparsi su diverse testate americane che elogiavano la modernizzazione russa e le migliori condizioni per il business a Mosca. Ma questo – o anche questo – è esattamente il lavoro per il quale governi e istituzioni si rivolgono a grandi agenzie internazionali o a prestigiosi consulenti politici per metterci un po' del loro spin e magari recuperare un brand danneggiato o favorire, come si dice, la "buona stampa". Interpellata da IL, Robyn Massey, a capo delle relazioni esterne di Ketchum, ricorda che il loro lavoro con la «Federazione russa è iniziato nel 2006 in coincidenza con la presidenza del summit del G8 di San Pietroburgo». Qual è il punto della collaborazione tra loro e la Russia di Putin? «Facilitare le relazioni tra rappresentanti della Federazione russa e i media occidentali, creando un dialogo più ampio». Così, leader in cerca di approvazione in Occidente cercano professionisti ben connessi per sostenere la loro causa, "allargare" il dialogo appunto, proporre altri punti di vista che massaggino e scuotano le idées reçues, chiamiamole così. La maggior parte dei consulenti usciti da una campagna per la Casa Bianca creano una società del genere, per mettere a frutto l'esperienza fatta, soprattutto per nuove corse elettorali, ma non solo. Negli anni, collaboratori di Bill Clinton, George W. Bush e anche Barack Obama hanno dato una mano, e continuano ad aiutare, clienti politici e istituzionali in Ucraina, Georgia, Kazakhstan, Serbia, e tanti altri Paesi. Come accade, ancora oggi, per gli eredi della stagione del New Labour, ad esempio in Albania, dove sia Tony Blair, sia Alastair Campbell hanno sostenuto la vittoria elettorale di Edi Rama. Scrivendo diversi anni fa un libro di anatomopatologia del testo, Don Foster si imbatté in un paio di articoli di capi di Stato o premier (Ryutaro Hashimoto, Carlos Menem), il cui sapore, sulle pagine del Sun in occasione di viaggi ufficiali in Gran Bretagna, ricordava molto da vicino il lessico utilizzato dall'allora premier Blair: l'uso degli aggettivi in coppia e altre accortezze stilistiche che portavano le impronte di qualche esperto spin doctor di Downing Street. Una rete di interessi, spesso invisibile, che, tuttavia, rivela come comunicare nel modo giusto, a fortiori oggi che ci sono i social network, sia un'esigenza irrinunciabile. Per autocrati a caccia di consenso, leader in ascesa, esecutivi e affari. Con un filo di salsa per correggere il gusto.
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