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Questo articolo è stato pubblicato il 25 novembre 2013 alle ore 08:16.

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Inizia come una fiaba, con il sapore di una festa interrotta, guastata da un maleficio che cambia per sempre la vita del protagonista. Solo che The Goldfinch, il nuovo romanzo di Donna Tartt (Little, Brown & Co. 2013, uscirà per Rizzoli a marzo 2014 con il titolo Il cardellino) non parla di una principessa sull'altare o di una neonata in attesa del battesimo ma di Theo Decker, tredicenne figlio di genitori separati, che un giorno in cui è stato sospeso da scuola va a una mostra di pittura insieme alla madre; il suo castello è il Metropolitam Museum di New York («A me – un ragazzo di città sempre confinato tra quattro mura – interessava soprattutto per gli spazi enormi»); a esplodere non è l'ira di una fata esclusa dalla lista degli invitati ma la bomba di un attentato terrorista.

Nel caos dopo la deflagrazione, Theo si ritrova accanto a un uomo agonizzante da cui riceve un anello d'oro e un incarico enigmatico. Fine degli archetipi fiabeschi: il protagonista viene scaraventato in un romanzo per adulti e in un mondo improvvisamente contemporaneo e ostile.

Theo, entrato al Metropolitan da adolescente qualunque, ne esce come un semi-orfano invecchiato: ha perso la madre, ha visto morire lo sconosciuto cui si è aggrappato dopo la tragedia, ha camminato – letteralmente – su un certo numero di cadaveri. Andando via porta con sé The Goldfinch (Il cardellino), un quadro del 1654 di Carel Fabritius, allievo di Rembrandt. A poco a poco il cardellino (è buffo come il sostantivo italiano perda la forza di quello inglese: un peccato di cui non si potrà incolpare nessun traduttore) diventa il mistero in cui Theo può specchiarsi e forse riconoscersi. In fondo è stata la madre, appassionata di Fabritius, a proporgli di andare al Met quel giorno e le circostanze in cui è morta sono simili a quelle in cui è morto il pittore, vittima, insieme a tante sue opere, dell'esplosione di un magazzino di polvere da sparo.

Mentre incontra la realtà (adulti inadeguati, falsari, droghe) Theo trova come uniche vie di fuga il sogno, l'arte e l'amore ossessivo per una ragazza bellissima di nome Pippa. Più ha a che fare con un padre alcolizzato che lo ha già abbandonato una volta da bambino, più il ricordo della madre si idealizza e torna a tormentarlo, mentre la New York protettiva e magica dell'infanzia si trasforma nella Las Vegas del gioco d'azzardo. Un po' Pip di Grandi speranze, un po' Oliver Twist, il nostro eroe onora lo spirito dickensiano del romanzo lottando per formare la propria personalità, cercando la sua strada in un mondo che non sa far altro che ferirlo.

A Las Vegas Theo incontra Boris, un altro adolescente alla deriva (non esistono adolescenti che non lo siano, però loro lo sono più di altri), e i due diventano subito amici. Quando si parlano per la prima volta, Boris chiama Theo Harry Potter deridendolo per come è vestito mentre Theo nota che la voce di Boris, oltre a un forte accento australiano, ha «una sfumatura da Conte Dracula, o forse da agente del Kgb». Si prendono in giro, quindi si scelgono. Secondo Stephen King, autore di una recensione entusiasta, le dinamiche fra i due adolescenti sono raccontate con una precisione miracolosa, da lui ritenuta quasi impossibile per un'autrice. Un dettaglio che ritorna nella vita della Tartt: ha recentemente dichiarato che nel 1992, all'epoca del suo esordio, un importante editor l'aveva scoraggiata dicendole che non esistono romanzi di successo scritti da una donna che assume il punto di vista di un uomo. Ventuno anni dopo, Dio di illusioni è diventato il bestseller che conosciamo e lei può permettersi di fare il bis con una nuova voce narrante maschile. Tartt non specifica se quell'editor lavorava da Knopf, che pubblicò il libro (raccomandato a un agente letterario da Bret Easton Ellis), fatto sta che nel frattempo ha cambiato editore.

In The Goldfinch la storia viene raccontata da Theo adulto, rinchiuso ad Amsterdam in un albergo quattordici anni dopo l'attentato, e questa misteriosa reclusione aggiunge alla storia la dinamica del thriller. Tornando indietro nel tempo con Theo, parteggiamo per lui come un tempo abbiamo tifato per Holden (anche se il Salinger di riferimento, citato a pagina 17, è Franny e Zooey) e restiamo dalla sua parte anche quando l'ironia viene a mancargli lasciandolo fragile e disorientato. Accettiamo che la sua storia di formazione sia morale, sebbene mai banalmente moralista, proprio come nei racconti di Kurt Vonnegut, e abbiamo la sensazione che in questa scelta poco ammiccante dell'autrice ci sia qualcosa di coraggioso, qualcosa che la nostra letteratura ha perso. L'unico senso che possiamo e forse dobbiamo dare al nostro mondo è raccontarlo a qualcuno che amiamo («Ho scritto tutto questo, stranamente, con l'idea che un giorno Pippa lo leggerà – cosa che ovviamente non accadrà mai»).

Può sembrare curioso che in un romanzo dichiaratamente dickensiano siano così riuscite le descrizioni della ricchezza, dell'eleganza. Ma sappiamo già, perché ce l'ha spiegato Flannery O' Connor, che agli americani non è dato saper raccontare la vita dei poveri (di contro, nessun europeo ha mai raccontato il lusso come Fitzgerald). In The Goldfinch, appena incontriamo Hobie con la sua sfarzosa vestaglia di seta ci aggrappiamo speranzosi a lui. Il suo affascinante negozio di antiquariato e perfino il suo appartamento, dove risuonano rumori fuori moda come lo scricchiolio del pavimento e il ticchettare degli orologi per i quali in un attimo «ti ritrovi nel 1850 o giù di lì», diventano le nostre botteghe dei giocattoli, ci riportano alla dimensione fiabesca che abbiamo perso. Al contrario di quanto avviene con i membri della benestante famiglia Barbour cui Theo si appoggia subito dopo la tragedia, di Hobie sentiamo di poterci fidare grazie a quell'istinto coltivato da bambini, quando, nella sterminata letteratura di orfani cui disponevamo in biblioteca e alla tv, da Huckleberry Finn a Candy Candy, eravamo subito in grado di riconoscere i ricchi cattivi dal benefattore che avrebbe aiutato il nostro beniamino.

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