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Questo articolo è stato pubblicato il 25 novembre 2013 alle ore 13:16.

Casanova e Dracula si scontrano al Torino Film Festival: uno dei film più attesi della kermesse piemontese, «Història de la meva mort», vede di fronte l'affascinante seduttore e il sanguinario conte vampiro.
Diretto dal catalano Albert Serra, il film è un'interessante riflessione sul passaggio dal diciottesimo al diciannovesimo secolo, dall'illuminismo al romanticismo, rappresentati rispettivamente dai due personaggi in scena.
Vincitore del Pardo d'Oro all'ultimo Festival di Locarno e presentato a Torino nella sezione «Onde», «Història de la meva mort» è un prodotto originale e suggestivo che richiede però allo spettatore un'ampia dose di pazienza.
Serra, autore di «Honor de cavallería» (2006) ed «El cant dels ocells» (2008), realizza una bizzarra ballata macabra sulle cui note danzano luci e ombre, suoni e immagini.
Il regista è abile nel costruire un affascinante concerto audiovisivo (molti i riferimenti colti alla storia dell'arte) che però fatica a carburare a causa di un'introduzione prolissa e ridondante, in cui è in scena solo Casanova insieme ai suoi servitori.
Poteva essere un capolavoro, eppure il risultato finale è quello di un film importante ma non del tutto riuscito.
Una piacevole sorpresa è invece «La mafia uccide solo d'estate», esordio dietro la macchina da presa dell'ex "iena" Pierfranceso Diliberto, in arte Pif.
Il conduttore veste anche i panni del protagonista Arturo, giovane palermitano che racconta la sua vita in prima persona, dall'infanzia all'età adulta. La narrazione si concentra su due fronti: il rapporto con Flora, di cui è innamorato sin dalle scuole elementari, e i fatti di mafia che hanno segnato la sua intera esistenza.
In buon equilibro tra il grottesco e la cronaca nera, «La mafia uccide solo d'estate» è un intenso racconto di formazione, ambientato in un mondo e in un periodo storico dove le tragedie di sangue legate a Cosa nostra erano all'ordine del giorno.
Diviso nettamente in due parti (l'infanzia e l'età adulta), il film, inserito in concorso, ha un piccolo calo verso la conclusione ma riesce a farsi perdonare grazie a diverse trovate brillanti e mai banali.
Se i contenuti sono di primaria importanza (Pif parla della mafia in maniera sarcastica, dolorosa e commovente al tempo stesso), anche la messinscena riesce a dire la sua grazie all'ottimo lavoro di montaggio di Cristiano Travaglioli, abituale collaboratore di Paolo Sorrentino.
Infine, una menzione per un altro italiano in cartellone: «La sedia della felicità» di Carlo Mazzacurati, omaggiato con il prestigioso Gran Premio Torino.
Presentato nella sezione «Festa Mobile», il film vede i tre personaggi principali (un tatuatore da poco divorziato, un'estetista sommersa dai debiti e un prete corpulento) partire alla ricerca di una misteriosa sedia contenente un ricco bottino. La strampalata "caccia al tesoro" si rivelerà però molto meno semplice del previsto.
A tre anni di distanza da «La passione», Mazzacurati torna al cinema di finzione con una pellicola che ricorda da vicino il cult «Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo» di Stanley Kramer del 1963.
Rispetto alla commedia americana manca però quella verve anarchica che avrebbe reso «La sedia della felicità» un prodotto pienamente divertente e anticonvenzionale: il regista padovano azzecca i toni quando punta sul puro divertissement, molto meno quando lascia spazio alla nascente storia d'amore tra i due protagonisti.
Oltre ai tre interpreti principali (Isabella Ragonese, Valerio Mastandrea e Giuseppe Battiston) c'è spazio per tantissimi camei di nomi importanti: da Fabrizio Bentivoglio a Silvio Orlando, passando per (un doppio) Antonio Albanese e Katia Ricciarelli.
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