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Questo articolo è stato pubblicato il 26 novembre 2013 alle ore 08:24.
C'è una frase che ripeto ai miei figli quando la frequenza di «è mio, no è mio» diventa insostenibile, la dice sempre una mia amica americana: «Sharing is caring», condividere è prendersi cura, se ci dividiamo i giochi vuol dire che c'importa uno dell'altro. Quando ho letto questa frase nel libro di Dave Eggers The Circle come mantra dei "dittatori" della socialità a tutti i costi, quelli che se non posti qualcosa ogni ora allora non esisti («sei scomparsa!»), sono quasi morta: sto creando dei mostri è stato il primo pensiero, come sempre. Il secondo: gli piacerà esserlo, dei mostri.
La socialità è una trappola in cui finiamo sempre con incauto piacere, sventoliamo chicchissimo sdegno e poi ci perdiamo in sogni strani per quel nuovo, inaspettato follower. Ci piace guardare Louis C.K., il genio della comicità americana, quando dice che i telefonini rovinano i ragazzini perché hanno sempre in mano qualcosa, non sanno stare fermi e soli e perdono l'occasione di prendere in mano qualcosa che avrebbero già, «down there», ridiamo, ci indigniamo per il futuro nero dei nativi digitali e prendiamo lo smartphone per controllare se qualcuno ci ha retwittato. Su Instagram c'è una quantità mai vista di foto di propri piedi, ma ci va bene così se un maestro del gusto come il britannico AA Gill, allergico a ogni socialità indotta, celebra Instagram come il più vintage dei social e per questo irresistibile: è come se ci rimettessimo a spedire cartoline.
Sappiamo che la condivisione estrema non porta a nulla di buono, ma ce ne infischiamo: se anche le agenzie di sicurezza del mondo ci spiano, chissenefrega, comunque meglio loro che un ex fidanzato. Tutti noi combattenti consapevoli per la socialità viviamo in una splendida bolla, che è stata a lungo anche una bolla vera, di quelle economiche che poi scoppiano e ti tagliano lo stipendio, e che forse potrebbe tornare a essere pericolosa ora che il social media più furbo che ci sia – ha fregato anche gli antisociali, ormai mettiamo hashtag pure nelle liste della spesa – si è quotato alla Borsa di New York. Twitter diventa grande, raddoppia il fatturato rispetto all'anno scorso, e si sottopone al giudizio del mercato: le aspettative sono altissime, come già accaduto con Facebook. Le somiglianze con il colosso dei social sono talmente precise che la trappola in cui siamo finiti diventa ancora più ridicola, ed eppur irresistibile.
Come Mark Zuckerberg, anche il creatore di Twitter Jack Dorsey è un sociopatico: ha perduto l'infanzia a osservare formicai e disegnare felci, viaggia soltanto in autobus, sua mamma dice orgogliosa che il figliolo ha sempre preferito studiare nature morte che giocare con gli amichetti. Non c'è qualcosa di diabolico nel fatto che uno così insofferente rispetto alla comunità abbia inventato un sistema per mandare messaggi sul proprio status, status inteso in senso internettiano, sto correndo, sto leggendo, sto dormendo, sono intrattabile o sono sfidanzato? Le somiglianze con l'altro diavolo della trappola sociale Zuckerberg non finiscono qui: c'è anche che Dorsey non è l'ideatore di Twitter, non è l'unico almeno. Nel libro Hatching Twitter: A True Story of Money, Power, Friendship, and Betrayal, il giornalista del New York Times Nick Bilton prende le parti di un ex amico di Dorsey ed ex ideatore di Twitter, Noah Glass, per raccontare come Dorsey abbia fatto di tutto per restare il volto legato all'uccellino blu: è riuscito persino a dire che l'idea gli è venuta nel 1984, a otto anni. La ricostruzione della nascita di Twitter nel libro è di parte, e la parte è quella di Glass, quindi Dorsey non può che uscire come il traditore che si rivende come unico inventore quando non lo è (erano in tre): la questione è controversa, naturalmente, ma è perfetta per questo mondo in cui nulla è mai come sembra.
Due sociopatici lesti a far proprie idee di altri sono i registi del nostro Truman Show permanente, ma sono così bravi che quando sbatteremo contro la scenografia non faremo in tempo a disperarci – sempre che ce ne accorgeremo – e a ribellarci, perché saremo impegnati a vedere se c'è qualcuno come noi, se c'è qualcuno a cui raccontare l'attimo imperdibile, se c'è qualcuno con cui prendercela, soprattutto.
Non sappiamo più disconneterci, non sappiamo più annoiarci, dicono i guru dell'apocalisse digitale, e i boss di Wall Street hanno imposto un nuovo gioco ai loro banchetti: niente smartphone a tavola, il primo che trasgredisce paga il conto. Persino Randi Zuckerberg, sorella di Mark, s'è inventata Dot, una ragazzina col vestito a pois che un giorno si stacca dal tablet per vivere un'avventura nel mondo reale (è la protagonista del libro illustrato Dot.): ci vuole una vita sociale reale per sopravvivere alla grande distrazione digitale. Occhi che si incrociano, sorrisi che si riconoscono, altrimenti si finisce come Theodore, il protagonista di Her, film di Spike Jonze, che si innamora della voce del sistema operativo del suo computer. "Lei" si chiama Samantha, non ha un corpo, ma soltanto una voce che organizza la vita di Theo, nella Los Angeles del futuro, e arriva ad accompagnarlo in una romantica passeggiata a Venice Beach durante la quale anche lei inizia a riflettere sulla propria identità. E quel che più è ingiusto non è tanto che la tecnologia ci sta tirando pazzi, ma che dietro quella voce c'è Scarlett Johansson, e Theo nemmeno lo sa.
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