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Questo articolo è stato pubblicato il 29 novembre 2013 alle ore 16:54.

Doveva essere la settimana di Jennifer Lawrence. Che, diciamolo subito, non delude: questo secondo capitolo della saga Hunger Games piace e sembra più strutturato e interessante del primo. Ma ancora meglio vanno gli esordi di Pif e Joseph Gordon Levitt: parlano d'amore e mafia il primo, d'amore e porno il secondo. Missioni impossibili? Non per loro: La mafia uccide solo d'estate e Don Jon sono commedie sentimentali di spessore e originali, pur nella loro diversità.
Molto bello anche Lunchbox, anch'esso opera prima del giovane Ritesh Batra, molto apprezzata all'ultima Settimana della Critica di Cannes: qui il rapporto tra un uomo e una donna è solo epistolare, ma non meno potente. A chiudere una rosa di ottimo livello c'è Come il vento di Marco Simon Puccioni, con Valeria Golino nella parte della prima donna che ha diretto un carcere di massima sicurezza, e C'era una volta in estate, commedia di formazione di un adolescente sfigato di quelle che sanno fare (bene) solo gli americani. Insomma, questo fine settimana come si sceglie non si sbaglia.
Partiamo da chi nel suo primo giorno di programmazione italiana ha sfiorato i 700.000 euro, risultato da capogiro. Hunger Games- La ragazza di fuoco riporta sul grande schermo Katniss, la coriacea e bellissima Jennifer Lawrence. Lei che aveva sconfitto e gabbato il potere (Donald Sutherland) con furbizia e agilità, ora si ritrova a dover gestire la vittoria ai giochi letali da cui è sopravvissuta, sorta di altare sacrificale in forma di reality di una dittatura molto "spettacolare". Ma Katniss deve pagare anche le conseguenze dell'inganno perpetrato ai danni di quest'ultima, un amore non vero da reiterare a favor di telecamera. La riflessione sulla comunicazione e sull'autoritarismo qui diventa più profonda, l'azione è più essenziale ma non meno avvincente, la Lawrence ha un Oscar in più nella bacheca e si vede. L'unica brutta notizia di questo prodotto più che discreto è il finale tronco: è già pronto, o quasi, il terzo capitolo e quindi, come in una serie tv qualsiasi (e come già in Matrix e altre saghe) si finisce su un ultimo colpo di scena da svelare nella prossima puntata.
Straordinario Pierfrancesco Diliberto, sicuramente autore del film migliore di questo week-end e del lungometraggio italiano migliore degli ultimi mesi. Il suo La mafia uccide solo d'estate è un piccolo grande capolavoro di misura, una lezione di commedia moderna, un racconto per immagini supportato da grande scrittura (bravo Martani) e dolce emotività, che ripercorre la storia della mafia e degli eroi dimenticati che l'hanno contrastata – da Boris Giuliano a Rocco Chinnici – attraverso Arturo, un bambino sveglio e innamorato che ha tre certezze: Andreotti è un genio (delizioso stratagemma comico), vuole fare il giornalista e amare per sempre Flora. Da grandi, i due, avranno le facce belle e pulite di Pif (Pierfrancesco Diliberto, in tv prima Iena e poi Testimone) e Cristiana Capotondi. I piccioncini contro i picciotti, l'amore ai tempi della mafia, li vediamo con gli occhi di un bambino che diventa un ragazzo idealista e poi un padre, presentandoci uno spaccato del nostro paese che rende le nostre passate certezze grottesche e "assassine". Perché i Dalla Chiesa sono stati uccisi dai mafiosi perché tutti noi li avevamo lasciati soli. E questo ragazzo di Palermo, che ha un grandissimo talento e che non ha paura di riprendere uno stile televisivo, quando efficace (la voce fuori campo, il ritmo narrativo, la fotografia, l'angolo da cui guardare il tutto), sa sbattercelo in faccia con un sorriso, tra Peppino Impastato e quel Marco Tullio Giordana, sul cui set de I cento passi lui iniziò la sua carriera artistica, come aiuto. Pif sa essere duro senza perdere la tenerezza. E, soprattutto, viceversa.
Di tutt'altra pasta il primo approccio dietro la macchina presa di Joseph-Gordon Levitt. Il suo Don Jon è la storia di Jon Martello, palestrato cafone da discoteca che ama le storie di una notte, bere con gli amici e il porno su internet, una vera e propria ossessione, persino quando divide la vita e il letto con Scarlett Johansson (bravissima nella parte di una ragazza piuttosto naif e ruvida). Il punto di partenza può sembrare poco affascinante, ma su quella mania il giovane attore e autore costruisce un'esistenza che espone piano piano, attraverso la reiterazione di immagini, gesti, dialoghi e monologhi molto efficaci, le fragilità del protagonista e di una società drogata di sesso e esteriorità. Lo scopre lui e lo scopriamo noi con Julianne Moore che, non rifiutando il suo stile di vita, lo porta dentro un'esistenza diversa. Il sesso così non diventa un fine, ma un percorso. Ma l'amore può essere anche solo epistolare, legato a parole e abitudini (un cilindro indiano per il pranzo consegnato alla persona sbagliata), e a vite arrivate a una svolta. E se affidi le parole da leggere al viso vissuto e disorientato, ma carismatico, di Irrfan Khan e alla sensualità malinconica e irresistibile di Nimrat Kaur, serve solo un bravo regista, anche esordiente, per non rovinare tutto. C'è anche un pizzico d'Italia in questo melodramma che ha solo i pregi di Bollywwod, ma non i difetti legati agli eccessi di quel cinema non di rado fracassone e troppo colorato. Nasce, infatti, dal TorinoFilmLab (Training Development Funding). Difficile non intenerirsi, seguire le svolte narrative come se fosse un thriller, e non tifare per due che hanno il coraggio di andare contro un percorso già scritto, di prendere il "treno sbagliato che possa portare alla stazione giusta".
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