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Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2013 alle ore 15:51.

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«Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può», diceva un certo Carmelo Bene. Da genio assoluto della musica Keith Jarrett, quando vuole, fa esattamente quello che può. E cioè tutto, talvolta persino troppo.
«No End», nuova uscita discografica del mostro di Allentown Pennsylvania, ne rappresenta l'ennesima testimonianza discografica: doppio album inciso nel 1986 all'interno del proprio studio domestico nel New Jersey, venti tracce senza titolo, contrassegnate da numeri romani nelle quali il Nostro in assoluta solitudine si cimenta, nell'ordine, con chitarre elettriche, basso Fender, batteria, tablas, percussioni, gorgheggi vocali, flauto dolce e pianoforte.

Abbiate comunque in chiaro una cosa: non si tratta affatto di un disco pianistico. Anzi: se il nome dello strumento musicale per eccellenza non apparisse riportato, bianco su nero, sul retro di copertina, neanche ci faremmo caso. Perché «No End» ha tutti i pregi e i difetti dei dischi «atipici» di Keith Jarrett, a cominciare dal sessantottino «Restoration Ruin» per proseguire con alcuni capitoli per l'etichetta Atlantic dei primi Seventies e ovviamente «Spirits» che, sul versante produttivo, precede di un anno questa nuova uscita per Ecm. Requisito fondamentale per apprezzarlo: c'è da essere profondamente innamorati dell'arte del pianista 68enne, così innamorati da giustificarne il momentaneo allontanamento dalle sue inconfondibili fughe per ebano avorio.

Lo strumento predominante stavolta è la chitarra elettrica. Attitudine rock che emerge con prepotenza? Fino a un certo punto: Jarrett suona indugiando su scale minori melodiche e armoniche. L'Oriente è dietro l'angolo, in particolar modo l'India, «suggerita» dall'utilizzo intensivo delle tablas che, nel secondo disco, diventa addirittura ossessivo. Per quanto riguarda il basso, il suo stile è essenziale ma spiazzante: infila bicordi, alterna riff, si perde, si ritrova. Alla batteria sembra seguire la trama narrativa portante con discrezione, sottolineando i passaggi più carichi di pathos.

In nessuno degli strumenti che costituiscono l'ossatura di «No End» il musicista può considerarsi un virtuoso eppure, tutti quanti, rispondono a una precisa logica di insieme, misteriosa e accattivante. Jarrett rivendica con forza l'elemento indefinito della propria arte improvvisativa che, quando siede al pianoforte, tende a soccombere davanti alla sapienza della misura. Indefinito come «non finito», in senso michelangiolesco.

Keith Jarrett
«No End»
Ecm

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