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Questo articolo è stato pubblicato il 18 dicembre 2013 alle ore 08:28.

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Nessuno nega la crudeltà della crisi né la drammaticità della situazione italiana: le aziende che chiudono, i posti di lavoro che non crescono, il potere di acquisto che diminuisce. I numeri sono impietosi. Ma altrettanto perentori sono i dati sulla ricchezza globale: malgrado lo smarrimento che ci affligge, la ricchezza del mondo è aumentata. Impegnati a piangerci addosso, non ci siamo accorti che negli ultimi dieci anni la ricchezza del mondo è raddoppiata. Turbati dalla recessione, non crediamo ai report che prevedono nei prossimi cinque anni un ulteriore aumento del 40 per cento della ricchezza mondiale.

Non solo. Assuefatti allo straordinario benessere di questi anni, dimentichiamo che nel 1990 i super poveri del pianeta erano due miliardi, mentre oggi nonostante l'aumento della popolazione si sono dimezzati. Meglio riscriverlo per bene: negli ultimi vent'anni un miliardo di persone è uscito dalla povertà estrema. Un miliardo. E, secondo la Brookings Institution di Washington, entro il 2030 uscirà dall'indigenza un altro miliardo. «Verso la fine della povertà», ha titolato qualche mese fa il settimanale Economist.
I numeri sono incredibili: nel 2000 la ricchezza globale era di 113mila miliardi di dollari; nel 2013 è diventata di 241mila miliardi. Nel 2018, secondo un paper del Credit Suisse, sarà di 334mila miliardi. Abbondanza – Il futuro è migliore di quanto pensiate di Peter Diamandis e Steven Kotler e Sull'orlo del boom – I miracoli economici del mondo che verrà di Ruchir Sharma sono due nuovi saggi sul tema, in uscita nelle librerie italiane per Codice edizioni.

Sul fronte della povertà si è passati da 1,9 miliardi di persone (il 43 per cento del pianeta) che nel 1990 vivevano sotto il livello di povertà estrema, a 1,2 nel 2010 (il 21 per cento). La proiezione per il 2020 è di una riduzione al 9,9 per cento della popolazione che vive in povertà estrema (fissata dalla Banca mondiale a 1,25 dollari al giorno). Nel 2030 dovrebbe uscire dalla povertà un altro miliardo di persone, riducendo i super poveri a 386 milioni, il 5,4 per cento della popolazione mondiale. Un progresso straordinario.
C'è da chiedersi che cosa ha consentito a un miliardo di persone di non far più la fame. Quale sistema ha redistribuito geograficamente e raddoppiato velocemente la ricchezza mondiale? Quale politica economica dà ogni anno maggiore speranza per un futuro migliore a centinaia di milioni di persone? La risposta è semplice: la globalizzazione dei mercati e la liberalizzazione del commercio, oltre a una migliore redistribuzione del reddito in Cina e nel resto del mondo. In una parola: il capitalismo. Il capitalismo nella sua versione progressista adottata negli anni Novanta da Tony Blair e da Bill Clinton, cioè dalla sinistra moderna, riformatrice e liberale con le spalle ben coperte dalla rivoluzione economica avviata un decennio prima dai predecessori conservatori Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

Sarà certamente difficile nei prossimi venti anni ridurre di un altro miliardo i poveri più poveri e sconfiggere una volta per tutte la fame, come da obiettivo della Banca mondiale, anche perché nel mondo occidentale sfiancato dalla recessione e costretto a condividere l'abbondanza con altre centinaia di milioni di persone dislocate nei posti più remoti del pianeta, torna la nostalgia per i «più Stato, meno mercato», per le politiche protezioniste e per una certa indifferenza nei confronti di chi non ce la fa.
Eppure è evidente che la strada per raggiungere una maggiore agiatezza locale e globale passa per più mercato, più aperture, più libertà. Più crescita. Se n'è accorto perfino il Partito comunista cinese (dimenticandosi però la parte sulla libertà), ma non scalfisce la chiacchiera di chi invece individua l'origine della crisi di questi anni, anche quella italiana, proprio nelle politiche "liberiste" degli anni Novanta. In Italia, poi. Come se le avessimo avute anche noi, quelle politiche riformatrici di Blair e di Clinton, e poi dei loro successori, e pure di Schröder in Germania. Noi non abbiamo avuto quegli anni Novanta, ce li siamo persi. Siamo stati impegnati con Mani pulite, con le Gioiose Macchine da Guerra, con Berlusconi e l'antiberlusconismo, con le ampolle del Dio Po e con le rifondazioni comuniste, con le caste e con i patti di sindacato, e più recentemente con gli eserciti di Silvio, con gli smacchiatori di giaguaro e con il populismo da bar dello sport. Così mentre in questi vent'anni i nostri partner europei e d'oltreoceano hanno intuito, favorito e cavalcato la globalizzazione che ha cambiato il mondo, dimezzato la povertà e raddoppiato la ricchezza, noi ci siamo accapigliati sul Caimano e abbiamo scaricato le responsabilità del fallimento su qualcuno o qualcos'altro, occupandoci solo di spendere soldi che non avevamo, di indebitarci fino al collo e di ipotecare il futuro nostro e quello dei nostri figli.
Chissà come mai Beppe Grillo ce l'abbiamo solo noi, eh. Chissà perché al terzo anno di recessione appare più fioca la luce in fondo al tunnel. Chissà.

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