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Questo articolo è stato pubblicato il 19 dicembre 2013 alle ore 08:23.

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Da mesi il mantra di una folta schiera di politici e intellettuali è: nel dubbio, prenditela col liberismo. La tesi è quella secondo cui per uscire dalla crisi, rilanciare l'occupazione e diventare un Paese più prospero e giusto bisogna passare da un atto tutto sommato semplice, per quanto ineludibile: combattere il "liberismo", anzi il "neoliberismo", che poi spesso è "turboliberismo", se non addirittura "neoliberismoselvaggio". Detto così, tutto unito: un'unica parola in grado di contenere da sola le cause della recessione, della disoccupazione e magari anche delle alluvioni e dei tornado.
Le parole hanno un significato e così anche l'uso che ne facciamo. Generalizzando, il neoliberismo è un approccio economico volto a dare un peso e un ruolo minore allo Stato, a vantaggio invece del libero mercato e della concorrenza. Sostenere che l'Italia sia nella situazione in cui si trova a causa del neoliberismo vuol dire quindi sostenere che l'Italia in questi anni abbia ridotto – selvaggiamente, addirittura – il peso dello Stato nella sua economia, abbattendo le tasse e la spesa, privatizzando le grandi aziende pubbliche, riducendo drasticamente la burocrazia, abolendo la contrattazione collettiva e gli ordini professionali, lasciando mano libera ai privati. Al di là di quanto consideriate o no auspicabile questo scenario, sapete che non è successo: può dire il contrario solo chi non apre un giornale da vent'anni o chi cerca un argomento comodo per imputare le nostre mancanze a un nemico invisibile, ed evitare così di affrontare questioni difficili da ridurre in slogan.

La popolarità di questo trucco dialettico si spiega soprattutto con l'eco di una discussione sul neoliberismo che all'estero, soprattutto negli Stati Uniti, effettivamente esiste: nessuno prende sul serio vasti programmi di nazionalizzazioni, ovviamente, ma si discute ancora di quanto la cosiddetta deregulation finanziaria negli anni Novanta abbia posto le premesse per il collasso del sistema bancario, di quanto la confusione tra banche d'investimento e banche commerciali abbia messo a rischio i risparmi dei correntisti, di quanto sia giusto o no tassare di più le rendite finanziarie. E si discute e si discuterà a lungo sul fatto che per rilanciare i consumi serva più spesa, a costo di aumentare le tasse o il debito, oppure più libertà d'impresa e meno tasse. Le ragioni per cui gli Stati Uniti – un Paese in cui la famiglia media paga tra il 15 e il 25% di imposte sul reddito e dove gli utili da capitali sono tassati al 15% – affrontano una discussione del genere sono comprensibili. Che si possa prendere quella discussione e importarla tout court in Italia, compresi gli editoriali di Paul Krugman e gli slogan di Occupy Wall Street, è invece molto discutibile.
Contrariamente agli Stati Uniti, in Italia il neoliberismo non si è mai visto – figuriamoci nelle sue temibili versioni "turbo" o "selvaggia". L'Italia è tuttora il Paese dove aprire e tenere in piedi un'impresa richiede uno sforzo burocratico cervellotico e ai limiti del vessatorio, cosa che peraltro non ha impedito – anzi, ha favorito – lo svilupparsi di una patologica evasione fiscale. È il Paese dei politici nei Cda delle aziende locali e ai vertici delle strutture sanitarie, il Paese dell'imposta sul reddito che arriva fino al 43% e della pressione fiscale complessiva sulle aziende che supera il 65%. È il Paese dove i pensionati controllano il più grande sindacato dei lavoratori, dove esistono più di 30 ordini professionali (tra cui quelli degli agrotecnici, dei maestri di sci, degli spedizionieri doganali e dei giornalisti) e dove persino piccolissimi gruppi di interesse come farmacisti e tassisti riescono da anni a opporsi a qualsiasi forma di liberalizzazione.

Una simile applicazione "selvaggia" del liberismo, inoltre, avrebbe avuto bisogno di un contesto politico adeguato. È invece vero l'esatto contrario: elezione dopo elezione, l'unico partito che ha sempre ottenuto la maggioranza in Parlamento è quello trasversale statalista e corporativo. A volte è stato più forte, altre volte lo è stato meno, ma salvo timide iniziative governative o coraggiosi tentativi individuali il fronte del liberismo, tantomeno quello "selvaggio", in Italia non ha mai avuto più che una manciata di rappresentanti: sia a destra, dove la "rivoluzione liberale" è rimasta uno slogan fra tanti, sia a sinistra, dove gli eredi del più grande partito comunista d'Europa hanno fatto almeno qualche piccolo tentativo liberalizzatore in più degli altri.
Il "neoliberismo" può legittimamente non piacere, ma brandire oggi questa parolona come fosse la causa dei problemi italiani vuol dire aver fatto prevalere l'ideologia sulla realtà: ricorrere a una scorciatoia dialettica che non porta da nessuna parte, se non a prendere in giro i propri elettori.

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