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Questo articolo è stato pubblicato il 19 dicembre 2013 alle ore 08:23.
Lunar Park è il miglior libro di Bret Easton Ellis. Forse non il più importante, ma certo il più libero e disinvolto: soprattutto da un punto di vista tecnico. A cominciare dall’incipit che, in un delizioso gioco di specchi, è dedicato agli incipit. Per essere più precisi, agli incipit dei libri precedenti di Ellis, a cui lo stesso Ellis dà i voti. Con il tempo, nota Ellis, «le frasi iniziali dei miei romanzi – per quanto ben costruite – sono diventate sempre più complicate ed elaborate, sovraccariche di un’enfasi pesante e inutile sui minimi dettagli». Come a dire, più la vita si fa complicata più si complicano gli incipit. Tanto che Ellis decide che d’ora in poi i suoi incipit saranno molto più secchi.
Perché Ellis insiste tanto sugli incipit? Perché – da markettaro di genio – sa che un buon incipit vale il biglietto vincente della lotteria. L’incipit è come la prima uscita con una ragazza. Devi essere spigliato, divertente, intenso, persino drammatico, ma non devi strafare. Devi sparare molte delle tue cartucce, ma, per carità! non tutte, e non subito. Il rischio è l’effetto Marías. Ho grande stima per Javier Marías. Uno scrittore di prim’ordine. Un connaisseur di classe. E tuttavia non amo il modo in cui la maggior parte dei suoi libri si avvitano su una grande idea originale. Marías ha incipit fulminanti. Ma è come se i suoi romanzi non fossero all’altezza delle straordinarie scene di apertura.
Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome.
Ecco il bellissimo attacco di Domani nella battaglia pensa a me. Il pretesto narrativo è brillante: un uomo rimorchia una sconosciuta, ma ecco che proprio quando sta per andarci a letto lei muore. Lui non sa neppure come si chiama. Marías è come quei ristoranti che puntano troppo sugli antipasti. I suoi libri (soprattutto i migliori) fanno pensare a un vortice immobile. E mi chiedo se non sia l’eccessiva importanza conferita all’incipit a rendere pleonastico tutto il resto.
Qualcosa di analogo (anche se con maggior cautela naturalmente) si può dire per García Márquez. È difficile immaginare qualcosa di più efficace di un incipit di Márquez. I suoi incipit sono lussureggianti, non meno dei suoi titoli: in un certo senso, hanno creato un genere, poi mille volte incautamente imitato. Il guaio è che il primo boccone soddisfa talmente il palato che i successivi rischiano di risultare insipidi. Indugiando sulla similitudine eno-gastronomica (giuro che è l’ultima volta) è come se, in una degustazione di vini rossi, si partisse dal Barolo. Se un romanzo parte troppo bene rischia di precipitare in una desolante anticlimax.
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