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Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2013 alle ore 09:08.
L'ultima modifica è del 21 dicembre 2013 alle ore 13:08.

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Io non so se le stampanti 3D ci porteranno tutto ciò che annunciano i loro sostenitori. Ignoro se faranno per il mondo degli atomi ciò che internet ha fatto per i bit, come scrive il direttore di Wired Chris Anderson. Se abbatteranno le barriere all'ingresso del settore manifatturiero permettendo ai soliti mitici due ragazzi in un garage di fare concorrenza a una multinazionale consolidata. Se daranno vita a un gioioso ecosistema di micro-industrie domestiche nel quale ciascuno si stamperà il proprio drone nel salotto di casa.

Quando, negli anni Settanta del secolo scorso, fu chiesto a Zhou Enlai quale fosse la sua opinione sulla Rivoluzione francese, il braccio destro di Mao rispose: «È presto per dirlo». A maggior ragione, proclamare oggi l'avvento della "Terza rivoluzione industriale" è forse un po' prematuro. Detto ciò, bisogna ammettere che un effetto essenziale il cosiddetto movimento dei makers lo ha già prodotto. E non si tratta tanto di un risultato pratico quanto di un cambiamento culturale. Con la loro capacità di applicare le tecnologie più avanzate alla produzione di singoli oggetti materiali, i makers stanno riuscendo laddove decenni di prediche politico-accademiche avevano fallito. Grazie a loro l'abilità manuale e la cultura artigianale sono tornate di moda. Anziché essere percepite come un polveroso retaggio del passato, cominciano a essere viste come un potenziale fronte d'innovazione. Al punto che oggi non è più impensabile che un ragazzo iperdiplomato aspiri a dedicarsi a un'attività manuale – sia pure con tutti gli ausili tecnologici – anziché sedersi alla scrivania di una società di consulenza o di una banca d'affari. Basta fare un giro per i quartieri più trendy di Brooklyn o di San Francisco per rendersi conto di quanto si stia diffondendo la cultura postartigianale dei nuovi creativi.

In un libro appena tradotto in italiano – La società dei makers, Marsilio – David Gauntlett ha compiuto il primo vero tentativo di collocare questa tendenza nel quadro più vasto dell'evoluzione delle nostre società. Ne emerge un affresco visionario nel quale la nuova cultura del "fare e creare" diventa l'antidoto al "Bowling Alone" di Robert Putnam. In pratica, sarà anche vero che il capitale sociale inteso in senso tradizionale è in fase di declino, e sarà anche vero che i vettori d'integrazione della società industriale – dalla scuola alla televisione – hanno sempre meno presa sul mondo, ma un nuovo collante potrebbe emergere dalla condivisione sempre più allargata di milioni di gesti creativi individuali – dalla gara di uncinetto al video caricato su YouTube.

Per David Gauntlett, che scomoda John Ruskin a Karl Marx, William Morris e Ivan Illich, il neoartigianato tecnologico è un antidoto contro l'alienazione che separa i compiti intellettuali da quelli manuali e frammenta il lavoro in migliaia di occupazioni separate e insignificanti. «Le persone vogliono seguire un processo dall'inizio alla fine – scrive Gauntlett –, cosa che non riescono a fare nella vita di tutti i giorni». E che è invece possibile per il maker che passa dall'ideazione alla realizzazione, alla distribuzione del proprio manufatto. Anche in questo caso, il punto non è che Gauntlett abbia ragione o meno. Il punto è che, dopo una lunghissima eclisse, la manualità dell'artigiano che dà vita materialmente a un prodotto unico con piacere e passione è ritornata sulla scena. Non più fenomeno di retroguardia, bensì ultima frontiera dell'innovazione tecnologica e culturale. Il che sarà forse divertente per un hipster newyorkese, ma è sicuramente decisivo per un sistema produttivo come quello italiano che rappresenta ancor oggi uno dei principali serbatoi di competenze manuali al mondo.

In Italia, quando siamo nel giusto, abbiamo quasi sempre bisogno di un americano che venga a dircelo per convincercene fino in fondo. È stato così con il nostro cinema, con il nostro design, con il modello dei nostri distretti industriali. Ecco perché, oggi, è importante che la rivalutazione della cultura artigiana arrivi da Brooklyn e da Palo Alto. Non sarà certo una novità per chi – come Stefano Micelli – segnala da anni l'opportunità di riconnettere il nostro saper fare tradizionale con le dinamiche più avanzate del capitalismo culturale. Ma potrebbe essere la spinta decisiva affinché qualche migliaio di ragazzi rinunci infine a iscriversi a Giurisprudenza o a Scienze della comunicazione per riscoprire la gioia – e il profitto – che possono derivare dal produrre qualcosa di concreto.

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