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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2013 alle ore 08:24.
L'ultima modifica è del 23 dicembre 2013 alle ore 08:43.

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Un uomo importante, un artista. Uno scrittore. Sta lavorando quando lo avvertono che un giovane ha chiesto di parlargli. Il ragazzo aspetta di essere ricevuto finché lo scrittore non si degni di farlo entrare. L'attesa è lunga, ma non è umiliante, anzi: conferma la forza di carattere di chi vi si sottopone. Di tanto in tanto lo scrittore guarda fuori dalla finestra: osserva il giovane, che aspetta. Passa una giornata intera e solo allora decide di farlo passare. «Sono molto impegnato. Le concederò una sola domanda». Il ragazzo pone allora l'unica domanda a sua disposizione: «Maestro, quando vi ucciderete?».

Lo scrittore è Yukio Mishima, e la vicenda è raccontata, in Italia, da Antonio Franchini nel suo libro intitolato, per l'appunto, Quando vi ucciderete, maestro? (Marsilio, 1996). La figura del "maestro" in letteratura ha diverse ramificazioni, appare come una sorta di albero della vita, i cui rami si intrecciano, lambendo ora la spiritualità, ora la sociologia della letteratura, ora l'antropologia. Il parallelismo allestito da Franchini è tra letteratura e combattimento. Anche nella letteratura si può uscire sconfitti. Come il ring è uno spazio chiuso, così lo è la letteratura, se è vero che nel primo canto del Paradiso, Dante la chiama «aringo». Parola con la stessa etimologia della germanica ring. Per Dante, l'ultima cantica è «l'aringo rimaso». «Il Paradiso – conclude Franchini – è il suo ultimo round». In una meditazione ipnotica, volutamente non conclusa, come tutti i discorsi puri e necessari, Franchini solca le strade della tradizione e la strada spirituale dei "maestri": «Parlando della scrittura, il mio amico Bruno mi obietta: ma tu mi sembra che non ti preoccupi troppo dello stile. Poi s'interrompe, ci pensa un momento, conclude: anche se, poi chi sa, forse è vero, forse lo stile non porta da nessuna parte. I vecchi maestri cinesi dicevano: "Se userai la tecnica sarai sconfitto"».

Maestri serafici, spiriti smaniosi, maestri dell'irregolarità e del disordine. Maestri come necessità. Maestri come perni fondamentali per ingenerare, per tenerli uniti, i cicli storici, i cicli eterei, i cicli, per l'eternità. In Chiacchiere di bottega (Einaudi, 2004) sono raccolti alcuni incontri di Philip Roth con colleghi e maestri. Isaac Bashevis Singer, Primo Levi, Saul Bellow. Si intitola proprio Rileggendo Saul Bellow il saggio che chiude il libro, e non è un caso. I due scrittori si conoscono a Chicago nel 1957. Uno ha 42 anni, l'altro 24, ed è un aspirante scrittore. Ancora nel 2000, Roth si dedica alla "rilettura" di Saul Bellow. È anche questa una certificazione della magistralità? È un omaggio interiore al proprio «maestro», o è una lettura strumentale, ancora fondamentale, secondo l'idea per la quale dai grandi maestri si assorbe sempre una sostanza luminosa, sempre nuova, sempre stupefacente? Sono nato negli anni Ottanta, e mi pongo quotidianamente domande sul "maestro". Quando vi ucciderete, maestro? Quando mi ucciderete, maestro? Quando vi ucciderò? E anche: Maestro, chi sei? Ho provato a sentire sul tema tre scrittori, più o meno miei coetanei, che stimo.

01 — Telefono ad Antonella Lattanzi, classe 1979, autrice di Prima che tu mi tradisca (Einaudi, 2013). Mi legge una frase del Diario di un anno difficile di John Coetzee, in cui si parla «del maestro Tolstoj» e «del maestro Dostoevskij». «Annichiliscono la nostra più insana vanità; ci schiariscono gli occhi, ci rafforzano il braccio». Antonella esplora questo segmento: «Il maestro è colui che inocula umiltà. Penso allo stesso Coetzee. A Flaubert. A Kazuo Ishiguro che insegna a non gridare. Maestro è chi poi riesce a farti scoprire delle parti di te. Stavo leggendo Goliarda Sapienza in un periodo difficile della mia vita. Mi sentivo costretta a restare dov'ero, nonostante i problemi. Lessi Goliarda e decisi: dovevo andare alla ricerca della felicità. Maestro è chi ti fa scoprire delle parti di te. Con i loro testi, o in carne e ossa. Penso a Domenico Starnone, che incontrai a un corso di scrittura. Lui era l'insegnante e subito mi disse: "Credici, sei una scrittrice". Il vero maestro è anche quello che ci insegna quanto siamo piccoli, e quanto bisogna lavorare, ostinatamente. Poi però bisogna separarsi dai maestri. Bisogna lasciare il loro nido. Perché il vero maestro non ama te. Ama la scrittura. Il vero maestro è quello che al momento giusto sceglie di non esserlo».

02 — Alcide Pierantozzi, 28 anni, ultimo libro Ivan il terribile (Rizzoli, 2012), mi racconta la sua vicenda: «Mentre scrivevo L'uomo e il suo amore mi imbattei negli scritti di Emanuele Severino. Rimasi stravolto dalla "struttura originaria". Non era più possibile pensare alla vita come l'avevo pensata fino al giorno prima. Iniziai a studiare i suoi scritti, ma è un percorso lunghissimo. È un maestro così grande, che sfugge. Dedicai a lui il suo libro, e quando gliene mandai una copia mi rispose con una bellissima lettera: quella lettera l'ho sempre chiamata "il mio master". È un maestro, ma lui precisa l'inevitabilità di un discorso filosofico, e quando parli di verità viene meno la figura umana di chi questa verità la indica. Il maestro non è che, come lo è Severino, la grondaia che lascia scorrere la verità filosofica».

03 — Contatto Paolo Sortino, 31 anni, autore di Elisabeth (Einaudi, 2011). «Ci sono molti modi di pensare al "maestro". Il rapporto è magistrale quando il passaggio del sapere è di tipo iniziatico. Il maestro sceglie l'allievo, come l'allievo sceglie il maestro. Parlare del "maestro singolare" significa entrare nella spiritualità. Parlare di autori di riferimento non è, per me, esattamente parlare di "maestri": certo, da loro si può imparare il sentimento della vita, e penso, per esempio a Dostoevskij. A mio parere, il maestro è colui che ti insegna come essere maestro di te stesso. Il Libro dello Splendore ci insegna una cosa: che l'archetipo del maestro è antichissimo, e che nei secoli si svuota di significato. Perché? Chi doveva fondare il concetto di maestro si era già preoccupato di pensare a chi avrebbe tentato di superarlo. Insieme all'idea di "maestro", deve esserci l'idea di un allievo che supera il maestro. Paradossalmente Pasolini non è un maestro: perché quanto più sei insuperabile quanto meno sei maestro».

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