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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2013 alle ore 08:22.
L'ultima modifica è del 23 dicembre 2013 alle ore 08:45.

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Nel 1972, durante una conferenza all'università di Louvain (o Lovanio), in Belgio, il celebre psicoanalista Jacques Lacan venne interrotto all'improvviso da un giovane contestatore. Il ragazzo fece irruzione nell'aula, come un perturbante in carne e ossa, e iniziò a cospargere la scrivania del filosofo di acqua e farina. Mentre lo scapigliato abbozzava uno strambo discorso genericamente contestatario, infarcito di Guy Debord e «nella misura in cui» (più i secondi), Lacan non fece una piega e lo invitò anzi a continuare, proseguendo a fumare incuriosito e chiarendo plasticamente a tutti gli astanti il significato del termine francese "aplomb". Alla lunga la ribalta annichilì il giovane nichilista il quale a un tratto, annaspando nel vuoto oratorio che s'era guadagnato, si vide costretto a un nuovo coup de théâtre e, passando alle maniere forti, cercò di rovesciare la farina in testa a Lacan. Solo allora, come recitano le didascalie, lo portarono via.

Il siparietto è comparso in Rete grazie ai sublimi pescatori di perle che curano il sito di Open Culture e racconta molto del rapporto tra palco e pubblico, tra oratore e spettatori, tra passivo-aggressivi e passivo-aggressivi. L'aneddotica riguardo i matti da presentazione è ricchissima anche per chi non ha mai parlato da uno scranno tanto illustre. Anzi, forse extra cathedra lo è anche di più. Più modesto il pulpito (e quello dell'editoria, dei minifestival, delle piccole librerie è certo a portata di mano), più grottesco sarà il disturbatore o troll o heckler o semplice schiantato che non sa come occupare il pomeriggio. È una scena familiare a chiunque abbia calcato un podio minore, un palco improvvisato. Uomini e donne che hanno scambiato il tuo angolino per l'angolino declamatorio di Hyde Park affollano le librerie, le biblioteche, le aule convegno, insomma i luoghi in cui dovrebbe essere conservato il senno, un po' come gli zombi consumisti che deambulavano intorno alle inutili merci del super.

Nella mia breve esperienza c'è stato quello che spostava la conversazione da un romanzo giovanilista al suo interesse per le rune celtiche, quello che dopo un'ora di conversazione intorno alla biografia di Bruce Springsteen ha alzato la mano e chiesto di fare un discorso intorno a Mina e quello che girava per tutta Milano scattando una fotografia a ogni giovane scrivente, tanto compiaciuto da quell'attenzione insperata da non figurarsi la futura irruzione della Scientifica nella cameretta tappezzata di foto con luce intermittente che fa bzz e regia di David Fincher.

«Guarda: il premio Calvino», disse l'anatomopatologo.
«Che fine orrenda».
Una volta fui invitato a leggere in un baraccio e uno del pubblico, terminato quel braccio di ferro contro il rumore di fondo delle bicchierate che passa sotto il nome ingannevole di "reading", chiese se poteva farmi sentire alcune sue canzoni: senza aspettare una risposta, montò su una sedia e si mise a sbraitare brani heavy-metal a tema pornografico, tutto a cappella. Strano a dirsi, gli Iron Maiden in salsa pecoreccia svuotarono il locale. Alla fine del concerto, sudato come Bruce Dickinson, il Poeta – mon semblable, mon frère tua sorella – venne da me e mi domandò se doveva preoccuparsi per alcuni ragazzi a un tavolino che l'avevano guardato ridendo: non gli avrebbero rubato il frutto dell'ingegno? Feci del mio meglio per rassicurarlo e, quando mi chiese il numero di telefono, rimasi così spiazzato da non riuscire a negarlo. «Sai, tra poeti…». Per correre ai ripari, chiesi il suo e lo segnai sotto "Non farlo" onde evitare l'improvvida risposta. Se io non ero Lacan, lui non aveva letto Debord.

Tutti episodi realmente accaduti che assomigliano all'arcinota carrellata di sciroccati tipica da film in cui al protagonista tocca fare un provino e lasciare irrompere la varietà del mondo e dell'immondo in una stanza. Eppure la cosa più singolare, vista la cornice prestigiosa, mi è accaduta lo scorso luglio a Venezia Jazz, quando sono stato invitato alla Fondazione Querini Stampalia per una lettura con accompagnamento musicale. Era una giornata di afa opprimente, che aveva trasformato tutti in scontatissimi Aschenbach con l'ascella pezzata al posto del cerone e le imprecazioni dei turisti invece di Mahler. Insomma, quel clima opprimente in grado di fare svalvolare anche chi matto non è, fatto sta che a metà lettura di un racconto che sbertucciava il fantasma di Jack Kerouac ho percepito del trambusto nel buio della sala e mi sono accorto che un mattocchio aveva fatto irruzione. Spingeva, voleva salire sul palco, gridava cose senza senso. Il bibliotecario si era fatto le ossa sugli incunaboli del Petrarca e non in una discoteca di Jesolo, quindi come buttafuori non valeva granché. Inoltre perché cacciarlo? Con un po' di buona volontà sono riusciti a farlo sedere. Da lì, per tutto il reading, l'ho sentito scalpitare: un grido in cerca di una bocca, come si autodefinì Hubert Selby Jr. a Lou Reed in una vecchia intervista. A un tratto dall'oscurità, come se a scagliarla fosse stata proprio la mano fantasma di Kerouac, è apparsa in volo una copia dei Vagabondi del Dharma, approdata ai miei piedi con un tonfo. Tale era la vibrazione che quando ho finito il racconto, l'ho invitato a salire sul palco. Lui s'è messo al microfono. Aveva un ghigno feroce, i capelli lunghi e una postura vagamente alla Jim Morrison. Più tardi avrei scoperto che in curriculum aveva una sedia buttata in un canale durante una presentazione all'aperto (e si sa: dove si cominciano a buttare le sedie…), ma lì sembrava disgraziato e innocuo come tanti. Ha letto qualche sua poesia con una bella voce e mi è sembrato molto dignitoso, anche se alla fine, scemato l'applauso condiscendente del pubblico, nei suoi occhi ho letto il vuoto. «Tutto qui?», sembrava chiedere. La faccenda singolare è che a quel punto mi è venuto l'impulso irresistibile di lanciare un libro.

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