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Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2014 alle ore 19:12.
L'ultima modifica è del 13 gennaio 2014 alle ore 11:00.

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L'anno inizia nel migliore dei modi se uno degli autori cinematografici italiani migliori ti porta in sala un film come Il capitale umano. Parliamo ovviamente di Paolo Virzì, che al di là delle demenziali e grottesche critiche che sta ricevendo da amministratori brianzoli che sarebbero degni di una sua commedia, ha sfornato un'opera di valore assoluto, un ritratto di un'Italia avida e arida che ben è fotografata dalle figure allo stesso tempo titaniche e squallide del finanziere Fabrizio Gifuni e dell'immobiliarista parvenu Fabrizio Bentivoglio.

Un thriller in cui una morte diventa il prisma attraverso cui guardare una società senza pudori di sorta, un luogo in cui tutto è monetizzabile: un amore, una figlia, un teatro, una vita. Ma non c'è moralismo in questa parabola ispirata al cineasta dal libro omonimo, edito da Mondadori, di Stephen Amidon, un thriller ambientato nel Connecticut e che ben gioca sulla critica sociale quanto sul racconto di genere. Due talenti che si incontrano, in questo caso, e fanno qualcosa di ancora più bello (e terribile, per ciò che mostrano). Amidon con le parole (bravi Bruni e Piccolo a tradurlo in "brianzolo" e a portarlo qui da noi) e Virzì con le immagini ci mostrano come il mondo stia scivolando in un abisso in cui i vecchi si vendono il presente e il futuro, per conservare i privilegi del passato. Una coppia di giovani innamorati diventano il campo da gioco di una generazione fallata e fallita, in cui neanche due donne migliori dei loro uomini (Valeria Bruni Tedeschi e Valeria Golino), riescono realmente ad emergere da questa mediocrità. Laddove in passato Virzì è stato tanto caustico quanto apparentemente aperto alla consolazione delle emozioni e dei sentimenti, qui si prende la responsabilità d'essere feroce al limite del nichilismo, di lavorare con strumenti di alto cinema per schiaffeggiarci con la realtà, messa in scena alla grande. Fa da direttore d'orchestra a fotografia e scenografia, ai costumi e alla musica per portare a casa una sinfonia cupa e dolorosa. Il suo capolavoro, senza se e senza ma.

Difficile, quindi, consigliare altro. Forse, a sorpresa, potremmo indicarvi Il grande match. Per scaricare la tensione accumulata con il livornese, potrebbe volerci il trash demenziale di un film che mette due miti della boxe cinematografica, Toro Scatenato (Robert De Niro) e Rocky (Sylvester Stallone), sullo stesso ring. Il risultato, vista l'età dei due, è ridicolo e grottesco, e lo sanno talmente bene loro così come il regista Peter Segal che chiamano anche Alan Arkin a divertire il pubblico con battutacce, gag facili e persino volgari, idee elementari e di sicura riuscita. D'altronde il tema degli "anziani alla riscossa" ormai ha portato alla nascita di un vero e proprio genere, si pensi solo che Last Vegas porterà, in un contesto altrettanto surreale e demenziale, ben quattro premi Oscar a divertirsi senza remore (tra cui lo stesso De Niro). Qui, poi, c'è pure del metacinema: i due pugili rivali in amore e sul ring che tornano a giocarsi la "bella" (intesa come spareggio ma anche come Kim Basinger) solo per soldi, non son diversi dai due attori che per una borsa piena di dollari si concedono di scalfire il proprio mito.

Mito sgretolato nel caso di Sapore di te. I Vanzina tornano laddove nacque il loro successo, con Sapore di mare, rinnovano il cast e scoprono, forse, che quella commedia romantica e musicale che tanto amiamo ancora adesso – e che Brizzi con Notte prima degli esami aveva saputo rispolverare alla grande -, non ha più spazio in un'Italia con molte meno speranze e benessere. E poi Carlo ed Enrico gli anni '60 li conoscevano eccome, mentre evidentemente gli '80 che portano a Forte dei Marmi, non sanno neanche intuirli, magari perché l'hanno vissuti con le malizie dei narratori consumati. E così se si esclude il solito Mattioli – epico quando rispolvera Roma-Liverpool e perfetto in coppia con una Nancy Brilli sempre più sottoutilizzata -, di Sapore di te rimane pochissimo. Resta la nostalgia per due autori che sapevano essere leggeri e sentimentali, senza apparire finti e patinati come accade ora (quasi grottesche le parrucche finali, acconciature in teoria da 2013: Martina Stella sembra invece un incrocio tra la Kathleen Turner con capello corto e Roxette, Katy Saunders la brunetta dei Ricchi e Poveri). Un gran peccato, ma si salva la colonna sonora: Lauper, Spandau Ballet, Francis e soci si sentono sempre con gusto.

Tutto il resto è noia: da 2 giorni a New York, in cui Julie Delpy copia se stessa sempre più stancamente e leziosamente, a Disconnect, in cui ci troviamo davanti a un lungometraggio diligente – con una bella idea di fondo, l'ossessione del pericolo della connessione permanente del mondo attuale e della nostra dipendenza dalla tecnologia "sociale" - ma impersonale, passando per Un compleanno da leoni, in cui la convinzione è che basta rubare idee da prodotti o saghe di successo e cambiare cast e qualche dettaglio di sceneggiatura, per sfangarla. Non è così.

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