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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2014 alle ore 14:56.

Bellezze Ursini viveva a Collevecchio, un piccolo centro della Sabina tra Roma e Rieti, e al suo lavoro di domestica alternava ogni tanto quello di guaritrice: un'attività mal vista, per cui nel 1527 (o forse 1528) si ritrovò a essere processata con l'accusa di stregoneria. Stremata dalle torture, finì per scrivere una confessione autografa in cui – sperando nel perdono – riconosceva tutte le colpe che le erano state attribuite. Non servì a niente: prima di finire sul rogo, Bellezze preferì suicidarsi in carcere.

Quelle otto paginette scritte da una mano molto incerta ci dicono oggi che nella campagna romana poteva esserci, agli inizi del Cinquecento, una donna – una popolana – in grado di scrivere. E qualcosa in più ci dice la trascrizione ufficiale che delle sue parole fece il notaio Luca Antonio, rimaneggiando i fatti che non collimavano perfettamente con le accuse e intervenendo sistematicamente sulla veste linguistica, come per rendere conforme ogni aspetto della confessione a una norma superiore (o almeno provarci). Lei scrive «io aio qumenzato a scioiere lu sacco» (a vuotare il sacco, a confessare tutto) «de che semo vetate dale nostre patrone, e nollo possemo dire se non a chi imparamo» (non possiamo rivelarlo se non a quelle a cui insegniamo l'arte della stregoneria). Lui corregge: «io ho comenziato ad sciogliere el sacco, benché siamo vetate dalle nostre patrone, che non lo habiamo mai a dire, se non ad chi el volesse inparare».

Si trova qui perfettamente simboleggiato – anzi, è proprio il caso di dire: incarnato – quel confronto/scontro tra due mondi sociali e culturali di cui la lingua è al tempo stesso spia e strumento. Nell'ampio e acuto studio di Enrico Testa dedicato all'Italiano nascosto, l'attenzione si appunta sul livello basso: quello che viene definito (riprendendo le parole di un personaggio di Landolfi) "italiano pidocchiale". "Italiano scrauso", potremmo anche chiamarlo, facendo leva su un aggettivo che – usato da Bellezze nella sua confessione («non poi intrare in questa arte si sì scrausa, senza stuteza e bona parlatura») – riemergerà alla fine del Novecento nel gergo dei tossicodipendenti romani (di "robba scrausa" si parla in Amore tossico, film di Claudio Caligari), come a segnalare una sotterranea continuità nella lingua degli emarginati.

Ma nel suo libro Testa si serve anche di altre definizioni. Quella che i linguisti usano più spesso è "italiano popolare", definizione che – applicata ai secoli precedenti al Cinquecento – risulterebbe quasi ridondante. All'epoca, infatti, la lingua parlata al posto del latino non si definiva ancora italiano, ma volgare: cioè appunto «lingua del volgo, del popolo». Certo: accanto al volgare per dir così popolare, si sviluppa per tempo un volgare nobilitato da un raffinatissimo uso letterario. Ciò non toglie che una vasta mole di scritture tre-quattrocentesche sia opera di illetterati alfabetizzati, ovvero – dato che litterae indicava per antonomasia il latino – persone che non conoscevano il latino, ma nondimeno – dotate di una cultura prevalentemente pratica – intrattenevano con la scrittura un rapporto quotidiano e disinibito (il caso limite potrebbe essere l'omo sanza lettere Leonardo da Vinci). Basta pensare ai mercanti, con la loro fittissima produzione di epistole, libri di conto, ricordi: il solo archivio del mercante pratese Francesco Datini contiene circa 125mila missive, e lui stesso (soprannominato dai contemporanei "il ricco") era un epistolografo instancabile: «ò anchora a schrivere a Simone e a Tomaxo di ser Giovanni: e pure si vorebe un pocho dormire».

Poi vennero la diffusione della stampa e soprattutto la codificazione grammaticale della lingua letteraria, con la contrapposizione sempre più netta tra letterati e ignoranti, tra scrivere bene e scrivere male: «differentemente dai secoli precedenti, in cui la situazione si presentava ancora fluida e variamente polimorfica, ora l'affermarsi di una regola meglio consente la riconoscibilità di quanto eccede da essa». Quell'ora comincia nel 1525, con la pubblicazione delle Prose della volgar lingua dell'umanista veneziano Pietro Bembo. Il quale, rigidissimo nel prescrivere forme riconducibili al modello di Petrarca e di Boccaccio (e tendenzialmente coerente con queste indicazioni nel suo uso letterario), scrivendo ad amici e familiari si lasciava andare – anche lui – a vocaboli e costrutti meno togati, persino a usi impregnati di dialettalità: zoè per "cioè", disono per "dicono" o bisognerìa mi mandasti per "bisognerebbe che mi mandassi".

Pur non mancando di notare le grandi differenze, Testa sottolinea gli elementi in comune fra gli usi informali dei letterati e le scritture dei semicolti; riconduce queste ultime a quelle "officine d'italiano" che erano spesso conventi e monasteri e indaga quei libri – romanzi, testi religiosi, grammatiche popolari – di cui la scrittura degli illetterati si nutriva. Uniti alle testimonianze di un "italiano d'oltremare" che nei secoli XVI e XVII fu usato a lungo nel bacino del Mediterraneo come lingua di comunicazione tra non italiani, questi capitoli contribuiscono a mostrare in maniera convincente come «sia esistito, almeno a partire dal Cinquecento, un tipo di italiano che consentiva la comunicazione, scritta e parlata, tra individui appartenenti a diverse classi sociali e provenienti da diverse zone del paese». Un "italiano semplice", per usare un'altra delle definizioni con cui Testa identifica quest'area condivisa, punto d'incontro – non va mai dimenticato – tra il chinarsi verso il basso di alcuni e il sollevarsi sulle punte di altri per i quali l'italiano è sempre stato difficile. A confermarlo, in epoca postunitaria, lo sforzo di chi – per accedere al diritto di voto – doveva dimostrare un certo livello di competenza linguistica. Il tema per l'ammissione alle liste elettorali assegnato nel 1899 a Borgocollefegato (oggi Borgorose) nell'alto Lazio era: «Un vostro amico vi ha invitato a pranzo: gli rispondete che non potete andarci perché vostro padre è malato e non potete lasciarlo solo». Fracassi Emilio provò a cominciare così: «Stimatissimo à mico mi ài vitato a pranzo gli rispondete che non potete andarci, per che mio patre sta è malato e non potete la sciarlo solo». Il voto fu 5/10 e anche lui, come tanti altri, si ritrovò escluso dai diritti politici. L'italiano non è mai stato uguale per tutti.

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