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Questo articolo è stato pubblicato il 07 febbraio 2014 alle ore 09:22.
L'ultima modifica è del 07 febbraio 2014 alle ore 09:37.

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A proposito di Davis di Joel e Ethan Coen (Ansa)A proposito di Davis di Joel e Ethan Coen (Ansa)

Un bel fine settimana nei cinema italiani, come succede solitamente nell'avvicinarsi alla Notte degli Oscar. Ma, lo diciamo subito, a sorprendere non è uno dei più bei film degli ultimi anni dei fratelli Coen, A proposito di Davis, biopic musicale ed esistenziale di grande potenza cinematografica ed emotiva, e neanche il Robert Redford letteralmente inossidabile e invincibile di All is Lost, ma l'esordio di Sidney Sibilia, trentenne ironico e capace che ha raccontato il precariato italiano in una commedia- heist movie molto ben riuscita e, soprattutto, divertentissima. Parliamo di Smetto quando voglio, sorta di "banda degli onesti" che decide di prendersi quello che società, poteri forti e pensieri deboli gli negano da sempre: una dignità.

I protagonisti? Latinisti (Aprea e Lavia, bel sodalizio) che fanno i benzinai di notte sotto un dispotico cingalese, un chimico (Stefano Fresi) di altissimo livello che cucina in un ristorante cinese, un fine economista (Libero De Rienzo) che prova a sfruttare la sua mente e il suo rapporto con i numeri per vincere a poker. Senza riuscirci. Un archeologo (Calabresi) costretto a salvare dai cantieri della metro antichi reperti, un antropologo camaleontico (Sermonti che ha una scena, la prima in cui compare), un ricercatore (Edoardo Leo, protagonista e capo della banda) che sembrava avercela fatta, almeno lui, a rimanere all'Università. Ma, ovviamente, lo cacciano.

Sembra un film neorealista sulla modernità, un dramma sociale, detto così: e invece, siccome l'Italia è un paese grottesco, è un film esilarante, che racconta il dolore di una generazione come quest'ultimo lo vive: con un sorriso, pur amaro, sul viso. Sempre, incredulo nell'incontrare difficoltà sempre più improbabili, frasi di commiato sempre più fantasiose, ingiustizie sempre più creative. La trovata "criminale" del riscatto verso un sistema che li ricatta, poi, è la ciliegina sulla torta: sfruttare la burocrazia italiota e le competenze di ognuno per diventare una sorta di parodia di Romanzo Criminale. Il loro pianto è tanto assurdo quanto credibile, e rende tutto più avvincente. Sibilia parla di cose serie, ma senza mai prendersi sul serio.

Un gioiello di cinema d'autore è A proposito di Davis di Joel ed Ethan Coen. Dave Van Ronk- che qui diventa Llewyn Davis - era una "leggenda del suo tempo". Ma non entrò nella Storia: per lui le porte erano state chiuse dal principio ed è struggente, in questo film, vederlo perdere con ostinazione quasi eroica. Nella sconfitta trova l'onore che nella vita, dissipata affettivamente e materialmente e anche, di fatto, artisticamente, non ha mai conquistato. Nella sua arte e in canzoni che ti stringono la gola per la rabbia compressa che hanno dentro e per loro la malinconia, c'è la passione che ti (ri)anima anche quando sei a terra, agonizzante. Come succede a lui. I fratelli Coen hanno raccontato tutto questo, parlando di lui ma, ovviamente, anche della sua parabola come metafora della realtà moderna.

E lo hanno fatto puntando su Oscar Isaac, presenza scenica da urlo e grande talento finora inespresso e cucendo attorno a lui interpretazioni brevi, ma incisive. Se si esclude Carey Mulligan, come al solito decorativa e piagnucolosa, piace il cinico John Goodman, l'attore-autista fuori di testa Garrett Hedlund, il bravo (e fortunato) ragazzo Justin Timberlake, sempre più sorprendente e completo nelle vesti d'interprete cinematografico. Persino F. Murray Abraham, nel suo cameo laconico è perfetto. E, naturalmente, la colonna sonora è tra le migliori proposte da due registi che, in quanto a musica "da film", peraltro, hanno solo da insegnare. E così compongono un quadro di un'America perduta e perdente, vera e un po' cialtrona, bastarda e fragile

Ottimo All is lost, ancora più come prova attoriale e sportiva di Robert Redford che come film vero e proprio. Opera sostanzialmente muta, vissuta da un naufrago in solitaria in un Oceano ostile, vittima di sfortunate coincidenze e del cinismo della natura, la scommessa del lungometraggio è quella di farti entrare dentro quella barca e quella sfida impari tra un individuo e una forza immane. Chandor è bravo a riprendere l'acqua come fosse un personaggio, la barca come se fosse una coprotagonista sfortunata, Redford in tutta la sua coraggiosa fragilità. E l'attore si produce in uno sforzo straordinario, fisico e interpretativo. Certo, il film non è per tutti. Ma se salirete su quell'imbarcazione, ci annegherete dentro. E vi mancherà il respiro.

Le ultime parole vanno spese per Robocop. Esperimento interessante di remake che nella forma cerca l'originale ma nei contenuti se ne allontana. Se Verhoeven puntava tutto sul connubio tra macchina e corpo, su quell'innaturale simbiosi idiosincratica, ossessione quasi morbosa per quel cineasta, Padilha, come già fatto in Tropa De Elite, sviscera il mito della sicurezza, del giustizialismo, del superpoliziotto senza coscienza, della limitazione delle libertà per salvarsi dalla criminalità. Due punti opposti di riflessione. Che però salvano Padilha, che forse avrebbe perso sullo stesso campo dell'originale e che qui, alla fine, se le cava, soprattutto nella prima parte. Anche se siamo molto lontani da quel capolavoro, ci sono scene notevoli come "il robot nudo", di grande impatto.

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