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Questo articolo è stato pubblicato il 07 febbraio 2014 alle ore 16:55.
L'ultima modifica è del 07 febbraio 2014 alle ore 17:25.

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New York City, Aeroporto Jfk, interno giorno. Una sala stampa improvvisata, gremita di giornalisti. Partono le domande: «Che ne dite di cantarci qualcosa?» Risposta corale: «No». John continua: «Prima dovete pagarci». Qualcuno chiede a George quale sia l’ambizione del gruppo, il febbricitante 21enne inglese risponde a botta sicura: «Venire in America». Un altro si rivolge a Ringo: «Che ne pensi di Beethoven?» Altra replica senza esitazioni: «Lo adoro. Soprattutto per le poesie». Qualcuno dubita: «Siete proprio voi in carne e ossa?» Altra risposta corale: «Volete toccare?» Quindi una domanda per Paul: «Che ne pensi del movimento di Detroit che vi vuole eliminare?» Un ampio sorriso, quindi la stoccata: «Anche noi abbiamo un piano: distruggere Detroit».

La tensione della sala si scioglie in una risata collettiva. Il gotha del giornalismo a stelle e strisce era arrivato lì con intenzioni belligeranti, ma dovette arrendersi di fronte a quello che sembrava il copione di un film dei Fratelli Marx. Era il 7 febbraio 1964, un venerdì di esattamente cinquant’anni fa, il giorno in cui i Beatles «presero» l’America partendo da quella che doveva essere una banalissima conferenza stampa. E la Beatlemania diventò di conseguenza uno dei primi fenomeni di massa di quello che un certo Marshall McLuhan, di lì a qualche mese, avrebbe definito villaggio globale. Quanto l’evento risulti cruciale per la storia della musica e del costume dell’emisfero occidentale lo capisci dalla portata delle celebrazioni di questi giorni. La Universal, nuova casa discografica di Lennon e soci dopo l’acquisizione di Emi, tira fuori il cofanetto «The U.S. Albums» con le riedizioni dei dischi beatlesiani per il mercato statunitense. La Cbs domenica sera manderà in onda lo speciale «The Night that changed America», tributo ai pionieri della British Invasion che porta la firma di alcuni degli artisti che hanno preso parte all’ultima edizione dei Grammy: dalla reunion degli Eurythmics a Stevie Wonder, da Alicia Keys ai Maroon 5 passando per Katy Perry. Con Paul McCartney e Ringo Starr nella parte dei «festeggiati».

Quell’apparizione all’Ed Sullivan Show

Si festeggia in Tv, esattamente sullo stesso network che cinquant’anni fa tenne a battesimo il fenomeno: la «notte che cambiò l’America» è infatti quella del 9 febbraio 1964, quando i Fab Four apparvero per la prima volta al popolarissimo Ed Sullivan Show. Che notte quella notte: i quattro di Liverpool nella madrepatria britannica erano esplosi da un anno, ma negli States erano cosa nuova. La vetta delle charts di Billboard l’avevano raggiunta soltanto da una settimana, con «I want to hold your hand», pezzo che, secondo l’impeccabile analisi del giornalista Martin Goldsmith, rappresenta un «sentimento allegro e rassicurante che cavalca con grazia una melodia dalla bellezza esuberante». Per completare l’opera si fecero bastare appena cinque brani. Prima le romanticherie di Paul impegnato in «All my loving» e nella cover di «Till there was you» messa lì quasi a dimostrare che quelli che qualcuno aveva bollato come pericolosi rivoluzionari capelloni in fondo erano bravi ragazzi. Quindi John che reggeva le fila di «She loves you» mentre una scritta in sovrimpressione tranquillizzava le fan: «Ci spiace, ragazze, lui è sposato». Doppietta finale con «I saw her standing there» e «I want to hold your hand». Rock and roll, certo, ma all’insegna di una specie di nuova consapevolezza.

L’inchino del «Re»

Lo show fu visto da 73 milioni di persone. Chissà con quale disappunto di sua maestà Elvis Presley che, fino a quel momento, era stato il massimo officiante delle cerimonie rock and roll via cavo e qualche anno più tardi li denuncerà al presidente Nixon per attività anti-americane. Senza che nessuno se ne accorgesse, tuttavia: a trasmissione in corso arrivò addirittura un telegramma nel quale the King esprimeva ai quattro «congratulazioni per la vostra apparizione all’Ed Sullivan Show e per la vostra visita in America». Della serie: se non puoi batterli, unisciti a loro. E nessuno, di lì ai successivi sei anni, sarebbe stato capace di reggere l’onda d’urto dei Fab Four. Perché? Kurt Vonnegut, un grande scrittore americano, era solito dire che una «plausibile missione delle arti consiste nel far sì che le persone apprezzino almeno un po’ di essere vive». Puntualmente gli chiedevano se conosceva artisti che ci erano riusciti. Nessun dubbio sulla risposta: «I Beatles».

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