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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2014 alle ore 09:38.

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Prima che ricevesse il Nobel, quando ancora non sapevo che Wislawa Szymborska esisteva nella realtà, sentivo il bisogno di inventarla. Prima di leggere la sua poesia, credo di averla immaginata e sognata. Mi ero convinto, ancora confusamente, che il suo era un modo di scrivere poesie di cui in Italia avevamo bisogno. Non voglio dire con questo che non ci fossero da noi buoni e ottimi poeti. Avevamo senza dubbio una tradizione novecentesca che si era conclusa, o esaurita, con gli ultimi libri di Montale; con i caotici, improvvisati poemetti e poesie giornalistiche di Pasolini; con il manierismo virgiliano-lacaniano di Zanzotto; con la teologia negativa in epigrammi aforistici di Giorgio Caproni; con la polimorfica, satirico-patetica «vita in versi» di Giovanni Giudici. Si potrebbero aggiungere altri nomi: anzitutto Sandro Penna e Amelia Rosselli, molto amati, se non imitati, dagli anni Ottanta in poi.

Ma dopo? L'interruzione di continuità è stata evidente. Almeno a partire dalla mia generazione, entrata in scena intorno al 1975, si ricominciava più o meno da zero, dopo aver dato la poesia per finita. È quando all'improvviso la vitalità della poesia è stata riscoperta e continuamente riaffermata (anche con troppa fede, una fede sospetta) ci si è accorti che i poeti erano diventati veramente troppi. C'era dunque di che sognare, e io sognavo una poesia che somigliasse almeno un po' a quella della Szymborska. So bene che augurarsi un particolare tipo di poesia è un peccato contro la natura dell'invenzione artistica, che è e deve restare imprevedibile.

Sono nemico delle poetiche programmatiche. I programmi sono quasi sempre attraenti per definizione, ma il giudizio deve riguardare i fatti, i risultati, non le intenzioni. Cercherò tuttavia di spiegare perché il mio sogno della Szymborska nasceva, come tutti i sogni, per compensare i difetti di una certa realtà.
Qualunque lettore può notare nelle poesie della Szymborska una serie di caratteristiche che, messe insieme, la rendono inconfondibile. Ne elenco alcune: immaginazione sfrenata e occasioni di vita quotidiana; inclinazione umoristica e perfino comica; giochi di parole mai separati da giochi di idee e immagini; una dialettica della composizione che fa incontrare gli opposti e mette l'identico in contraddizione con se stesso; ironia e pathos che nascono l'uno dall'altro; estro e audacia intellettuali che coincidono con la perizia tecnica. Quasi tutte queste cose mancavano nella poesia italiana, o erano isolate l'una dall'altra e quindi non si rafforzavano a vicenda, restando spesso una semplice aspirazione. Abbiamo avuto per esempio un paio di poeti capaci di esibire uno stile di pensiero, senza che avessero davvero un pensiero a giustificare quella forma.

Detto questo, devo aggiungere una cauta precisazione, almeno una: è così, salvo eccezioni. Queste eccezioni si trovano recentemente soprattutto nella poesia scritta da donne, che però non definirei "femminile", sia perché non rivendica diritti di genere né isola una tematica di esclusiva marca femminile; sia perché ha esattamente quelle caratteristiche che tradizionalmente, secondo una vecchia convenzione, venivano invece attribuite agli uomini: lucidità intellettuale, spregiudicatezza, coraggio, mancanza di sentimentalismo, distacco ironico, libertà di pensiero, energia espressiva e comunicativa, indipendenza da modelli. Il successo italiano della Szymborska è parallelo all'emergere da noi di un nuovo stile poetico del tutto privo di esoterismi e gergalismi poeticizzanti, privo di vaghe allusività, automatismi associativi, nebulosità semantica, indeterminatezza metrica.
Chi voglia farsi un'idea di quello che dico, può cercare i libri di Patrizia Cavalli, Bianca Tarozzi, Anna Maria Carpi, Alba Donati, che hanno tutte pubblicato in questo ultimo anno. Nessuna di loro naturalmente imita la Szymborska. Di lei ha scritto la Donati che la sua poesia è carica «di enigmi e di prodigi, commuove e ci rende allegri, spinge alla meditazione e ci trascina in cielo come aquiloni».

Ogni poeta ha un suo metodo, ma il metodo della Szymborska appare sempre in primo piano. La sua tecnica, i procedimenti e i meccanismi con cui costruisce le sue poesie sono visibili, vengono esibiti. Non sono solo forma; o meglio sono la forma della cosa che viene detta e che di per sé forse neppure esisterebbe. Se avessi il coraggio di fare un'ipotesi che non sono in grado di sostenere con nessuna prova, direi che in questo singolare metodo si incontrano le assurde meraviglie di Alice e la prassi conoscitiva della dialettica, quella di Marx e Engels, soprattutto di Engels, ma anche di Eraclito (il quale compare in una poesia). È possibile che del marxismo onestamente imparato in gioventù, alla Szymborska sia rimasto questo metodo dialettico che fa muovere, fa ballare le cose e ogni entità statica, convenzionale, autoritaria.

In una delle poesie contenute nel suo vero libro di esordio, Appello allo Yeti, del 1957, si leggono queste due strofe: «Nulla due volte accade / né accadrà. Per tal ragione / si nasce senza esperienza, / si muore senza assuefazione (...) Non c'è giorno che ritorni, / non due notti tutte uguali, / né due baci somiglianti, / né due sguardi tali e quali» (Nulla due volte).
Che sia vero o no, è questa la cosa che l'autrice trova interessante. Se si è capace di notarla, la differenza non fa sentire la ripetizione. Szymborska nota più la prima che la seconda, se ne rallegra, ci si diverte, ne è ispirata. La sua arguzia la aiuta a non cadere nel generico. Va a cercare, o trova subito, la singolarità. Per questo non si annoia, non ci annoia. Nella vita comune, questa poesia afferra ciò che comune non è. Se niente si ripete davvero, tutto è ogni volta interessante e da non perdere.

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