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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2014 alle ore 09:34.
Cerchiamo di inquadrare meglio la faccenda. Quanti criteri ci sono per giudicare una persona? Non molti. Brutalmente, possiamo ritenerla buona o cattiva, coraggiosa o codarda, appartenente al nostro gruppo di pari o meno, talentuosa o priva di talento, vincente o perdente. Naturalmente, ciascuno di questi criteri ha le sue sfumature e sottocategorie, ma di base la situazione è questa. Allora, se mi si chiedesse qual è il criterio dominante oggi, direi quest'ultimo. Ciò che conta è vincere, è il volume delle vendite, la celebrità, world domination, come dicono gli americani. Ma non bisogna mai ammettere che il valore principale è questo. Anzi, proprio per vincere occorre professare altre virtù e parlare d'altro. In Joseph Anton Rushdie sbandiera il vessillo della libertà di parola – vi sembra giusto, si chiede a un certo punto, che la Thatcher sia libera di organizzare la presentazione del suo libro e io, per via dei costi della sicurezza, no? Non è detto che questa sia ipocrisia. Può stare a cuore questo o quel problema o forma d'arte, ma sotto sotto quello che più conta è vincere.
La domanda rimane: perché la gente ha una tale considerazione per gli autori, anche quando non li legge? Perché accorre in massa ai festival letterari, mentre le vendite di libri crollano? Forse è perché la riverenza e l'ammirazione sono emozioni che ci attraggono; amiamo provarle, se troviamo qualcuno che davvero le meriti. Politici e militari non sono più adatti. Gli sportivi non hanno la giusta gravitas. In questo senso è un sollievo trovare un eroe letterario, qualcuno che sia talentuoso quanto nobile, e che non sembri primariamente interessato ad avere più successo di noi. Alice Munro, con le sue infinite cronache tristi di gente che non è riuscita a raggiungere i propri obiettivi, ha colto nel segno. Esplorando il senso di fallimento provato da tanti in un mondo sempre più competitivo, ha vinto il premio più ambito in assoluto, il Nobel.
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