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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2014 alle ore 08:35.

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C'è chi pensa che l'America stia lasciando il Medio Oriente. E c'è chi ha paura di un Medio Oriente senza America. Da mesi, il dibattito è aperto. Esiste una nuova dottrina politica che racconta un'amministrazione Obama meno coinvolta in Levante? Ogni nuova violenza, ogni nuovo dramma mediorientale sono oggetto delle riflessioni della stampa internazionale. La riconquista, a gennaio, da parte dei combattenti di Al Qaeda di due città simbolo della guerra americana in Iraq, Falluja e Ramadi, il protrarsi dei combattimenti in Siria, le bombe che portano il Libano indietro di quasi dieci anni raccontano qualcosa di «nuovo e destabilizzante», ha scritto il New York Times: l'emergere di un Medio Oriente "post-americano", in cui nessuno «ha il potere o la volontà di contenere gli odi settari».

Mancanza di volontà o nuova strategia? Ogni sabato mattina, durante l'estate, il presidente Barack Obama ha incontrato in un appartato ufficio della Casa Bianca un ristretto gruppo di assistenti per ridisegnare la politica estera in Medio Oriente. In un'intervista al New York Times a ottobre, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice, ha riassunto il nuovo approccio americano: «Non possiamo essere consumati 24 ore su 24 da una regione, per quanto importante sia». Obama «ha pensato che fosse un buon momento per fare un passo indietro e rivalutare il modo in cui concepiamo l'area».

Il presidente ha raccontato questa nuova visione nel suo annuale discorso sullo Stato dell'Unione, a fine gennaio. Più sforzi diplomatici e meno coinvolgimento militare: è stata questa l'essenza del suo breve messaggio di politica estera, in un'arringa incentrata soprattutto sui problemi di casa: «Non possiamo dipendere soltanto sulle nostre capacità militari, dobbiamo combattere le battaglie necessarie, non quelle che i terroristi vogliono che combattiamo – ha spiegato –. L'America deve allontanarsi da una situazione in cui si trova permanentemente sul piede di guerra». L'approccio – ha scritto il direttore del New Yorker David Remnick dopo una serie di recenti conversazioni con il presidente – apre a un nuovo equilibrio geopolitico «meno turbolento»: «Al centro del pensiero di Obama c'è l'idea che il coinvolgimento militare americano non possa essere lo strumento principale» per raggiungere l'obiettivo. Si tratta di «un cambiamento nella natura del coinvolgimento», non di un ritiro, spiega Colin H. Kahl, professore alla Georgetown University di Washington ed esperto di Medio Oriente del Center for a New American Security, think-tank vicino all'amministrazione Obama con cui ha collaborato.

La percezione di una sorta di ritiro è comprensibile, visto il disimpegno militare da Iraq e Afghanistan, ma gli Stati Uniti «non stanno lasciando la regione: siamo coinvolti nel processo tra palestinesi e israeliani, con la diplomazia lavoriamo su Siria, Egitto e per l'accordo sul nucleare iraniano». La percezione di un ritiro diventa però realtà per gli alleati dell'America che ne temono l'assenza, come Riad. Nell'incertezza sul futuro, cresce la lotta per l'egemonia regionale tra Arabia Saudita sunnita e Iran sciita, che si traduce in casse colme di denaro. Teheran sostiene il regime di Bashar al-Assad e finanzia le armi delle milizie libanesi di Hezbollah, mentre Riad offre miliardi di dollari al debole esercito libanese, rischia tutto sostenendo gruppi armati radicali sunniti in Siria e riempie i vuoti forzieri dell'Egitto dei militari per tenere fuori da palazzo i Fratelli musulmani.

Per Arabia Saudita e Israele, scrive Gerald F. Seib sul Wall Street Journal, i negoziati nucleari con l'Iran sono la prova del tentativo di Washington di "chiudere i conti" in Medio Oriente. C'è preoccupazione anche in Europa. A novembre, durante le trattative per un'intesa ad interim con l'Iran, Parigi ha frenato sui dettagli. L'Eliseo, spiegava allora il Nouvel Observateur, teme che Washington abbandoni in fretta la regione, lasciando l'Europa a gestire da sola pericolosi dossier. «Gli Stati Uniti sembrano non volere più lasciarsi assorbire da crisi che non corrispondono più alla loro nuova visione degli interessi nazionali», ha detto in una conferenza al Quai d'Orsay a novembre il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius. «L'America si sta sganciando, ma non se ne andrà dalla regione: cerca di calmare la partita», spiega Olivier Roy, orientalista e professore all'Istituto universitario europeo di Firenze. All'origine di questo diverso approccio, dice, ci sono un'opinione pubblica esausta dopo anni di conflitti; la consapevolezza che l'America nei prossimi anni potrà essere autosufficiente per quanto riguarda gli idrocarburi grazie a riserve di petrolio e gas shale (entro il 2035 secondo uno studio pubblicato a gennaio da Bp); l'interesse a uno scacchiere considerato da Washington più rilevante: «Obama è nato sul Pacifico, alle Hawaii: per questo motivo tende a guardare verso l'Asia».

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