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Questo articolo è stato pubblicato il 25 febbraio 2014 alle ore 07:39.

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Se Jonathan Franzen definisce "portentosa" una romanziera emergente, la prima cosa da fare è cercarla sui social network. Dove, ovviamente, non c'è. Sua allieva alla Columbia University («Scriveva le storie più interessanti del suo corso», ricorda Franzen), Rachel Kushner non darebbe mai un dispiacere al maestro, il quale ha recentemente dichiarato di provare qualcosa di simile alla delusione ogni volta che uno stimato scrittore, come l'amico Salman Rushdie, soccombe a Twitter. Kushner è salva, vantando all'attivo un'intervista in cui fa sapere che lei scrive e mica crea app, che lei non fa certo parte della tecnocrazia. Per noi lettori e scrittori comuni leggere The Flamethrowers (I lanciafiamme, uscirà per Ponte alle Grazie ad aprile, traduzione di Stefano Valenti) significa dunque, in primo luogo, tenere a bada i sensi di colpa per ogni volta che ci siamo distratti lasciando a metà un file di lavoro per fare un log in. Il primo capitolo, insieme prologo e dichiarazione d'intenti, è un'istantanea della Grande Guerra: nel 1917, sul fiume Isonzo, il soldato italiano Valera ha la meglio su un tedesco colpendolo con un faro da moto. Nel secondo capitolo la voce narrante diventa quella di una bionda in sella a una motocicletta (attenzione: di marca Valera) che in un'altra epoca corre verso New York e il suo futuro. Insomma, la moto dà la morte e la libertà, darà i soldi e darà l'amore. È un po' lo strumento magico del libro. Elementi connessi sono la velocità e il fuoco, sia materialmente che simbolicamente: «Fac ut ardeat», recita l'esergo (l'autrice racconta di essere rimasta impressionata da questo verso dello Stabat Mater dopo averlo visto sul camino di un amico italiano di famiglia fascista). Ciascuna delle vicende che si intrecciano nella trama celebra in modo diverso l'audacia, la provocazione, la marginalità, aprendo il sipario di volta in volta – e di epoca in epoca – su Arditi e anarchici, futuristi, brigatisti rossi, guidatori spericolati e soprattutto lanciatori di molotov, la categoria più sovrapponibile ai Lanciafiamme del titolo. Per fortuna, però, Kushner riesce a non prendersi troppo sul serio e questo insieme di elementi ad alto rischio di pretenziosità è tenuto in piedi da un umorismo lieve e dal distacco con cui la protagonista, senza nome ma chiamata Reno per via del posto in cui è nata, affronta tutto ciò che le accade, che si tratti di attraversare il Nevada o la scena artistica della Manhattan anni Settanta, di lanciarsi in una corsa roboante o nella storia con Sandro Valera, artista italiano trapiantato a New York nonché figlio del soldato del prologo (diventato dopo la guerra un industriale senza scrupoli). Kushner lega l'azienda Valera, una sorta di Fiat o Pirelli, alla storia del nostro Paese. A un certo punto Sandro commenta con studiato cinismo una foto del padre nel 1956 all'inaugurazione dell'Autostrada del Sole insieme al presidente del Consiglio (più avanti Kushner dirà che quel presidente era Aldo Moro confondendo la data di inizio lavori con quella di fine, il 1964; nel 1956 a capo del Governo c'era Antonio Segni – noi scrittori distratti dall'internet ci meravigliamo sempre quando scopriamo che quelli che non perdono tempo a rituittarsi i complimenti poi non controllano le date su Google): «La mia famiglia ha contribuito a rovinare l'Italia, ma costruire quell'autostrada ci ha fatto diventare ricchi». Per lui lo sventramento ha segnato la morte della complessità geografica della penisola; Reno gli fa notare che allora dovrebbe detestare anche gli Usa, non certo immuni da simili arterie, ma lui risponde che non è la stessa cosa per tutti, che essere rovinati è il destino degli americani. E a domanda su quale sia il suo, di destino, l'erede non teme la risposta a effetto: «Diventare cittadino americano, ovviamente».

Se nel romanzo il mito americano seduce la versione vintage del rampollo ricco, annoiato e prevedibile («L'Italia era troppo provinciale, diceva, per uno come lui, per una famiglia come la sua»), di contro il nostro Paese ha esercitato sull'autrice una notevole forza di attrazione. Basti pensare che I lanciafiamme è dedicato ad Anna, protagonista dell'omonimo film di Grifi e Sarchielli del 1975 in cui una sedicenne depressa, drogata e incinta viene ripresa per ore. Kushner ha dichiarato di averlo visto senza sottotitoli, di essere rimasta impressionata dall'accento della ragazza e di aver trovato, nella Roma che fa da sfondo, l'atmosfera che voleva ricreare nel suo romanzo. C'è soprattutto un passaggio in cui si sente un omaggio al cinema-verità: quando c'è la possibilità di filmare una protesta operaia in fabbrica, Reno e Sandro oscillano tra voyeurismo e ritrosia. E per un periodo Reno lavora come China girl, ovvero presta il viso a film in cui comparirà per pochi fotogrammi al solo scopo di permettere ai tecnici di calibrare i colori della pellicola (sì, è stato un mestiere vero).

Nel suo esordio, Telex da Cuba (Mondadori, 2010), Rachel Kushner usava un'epoca per raccontarne un'altra: la Cuba americana degli anni Cinquanta, opulenta, misera e decadente poco prima della rivoluzione, presentava inquietanti somiglianze con l'ultimo stadio di quella castrista. Anche leggendo il suo nuovo libro si finisce per pensare che quegli anni Settanta costellati di artistoidi e fragili rivoluzionari ci parlino più di oggi che di ieri, e anche stavolta si fatica a ridurre sotto l'etichetta del romanzo storico una trama che straborda e seduce.

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